sabato 30 maggio 2009

Laicità

Io penso che uno dei temi fondamentali per la politica odierna, sopratutto per la sinistra, sia quelli dei rapporti tra la chiesa e lo stato o, ancora meglio, tra fede e politica. La mia idea è che la laicità sia un valore fondamentale per avere uno stato libero. Sappiamo tutti infatti che la chiesa blocca lo sviluppo dei diritti civili, dicendo immancabilmente di no a tutte quelle proposte volte a dare dei diritti a dalle classi sociali che, oggi come oggi, ne sono privi. La chiesa è famosa per i suoi no, dall'aborto al divorzio, dal riconoscimento delle coppie di fatto al testamento biologico. Loro sostengono infatti che questi diritti sarebbero dannosi per la società e sostengono questo facendosi forza sui loro testi sacri. La cosa che sfugge loro, però, è che non tutti siamo cattolici, non tutti siamo credenti e non tutti siamo disposti a consegnare la nostra vita e le nostre scelte nelle loro mani. Per questo ritengo che i politici che si definiscono moderati perchè seguono senza protestare i dettami della chiesa non siano affatto moderati, ma siano degli estremisti cattolici, alla stregua degli ayatollah. Coloro i quali invece si rifanno veramente al liberalismo e dunque chiedono che lo stato sia laico in tutte le sue forme, appaiono come degli estremisti pericolosi e sono tacciati di laicismo. Il fatto è che in Italia manca una terza via, che sarebbe l'altra via estremistica, ovvera quella di coloro che chiedono la sparizione e l'abolizione della chiesa. Il tam-tam mediatico orchestrato dai teocon berlusconisti e ratzingeriani infatti fa apparire i laici come estremisti e gli integralisti cattolici come moderati. In realtà invece, chi chiede la laicità dello stato, la libertà degli individui e il rispetto per le scelte personali e per la dignità delle persone non dovrebbe apparire come estremista, ma come persona dotata di buon senso. I laici infatti, oltre a richiedere che siano garantiti i diritti di chi oggi non ne ha, vogliono anche mantenere saldi i diritti di chi oggi invece ne abusa, chiaramente impedendo loro di abusarne anche in futuro. Dunque nessuno vuole fare la guerra alla chiesa, nessuno vuole la sua sparizione. Semmai è la chiesa che fa la guerra alle minoranze e che ne chiede, se non la sparizione, per lo meno la negazione ufficiale.
Io sono dunque tra coloro che sostengono la necessità di poter fare delle scelte private e queste scelte devono poter essere effettuate senza che lo stato ci metta ostacoli insopportabili. Chi non vuole divorziare, chi non vuole scrivere un testamente biologico perchè è cattolico convinto può benissimo fare a meno di farlo, nessuno lo obbliga. Ma nessuno può neanche obbligare qualcuno a non farlo, a non prendere certe scelte se non condivide la fede dei cattolici. Riusciremo mai ad avere uno stato davvero laico e libero?

venerdì 29 maggio 2009

Iran e Israele: di chi avete paura?

di Massimo Fini - 28 maggio 2009
È più grave la posizione dell'Iran, che ha firmato il Trattato per la non proliferazione delle armi nucleari, ma che viene sospettato di voler costruirsi la Bomba, o quella di Israele che questo Trattato non l'ha firmato e l'atomica ce l'ha già? Sono più pericolose per Israele le dichiarazioni di Ahmadinejad per cui lo «Stato sionista scomparirà dalle mappe geografiche o sono più pericolosi per l'Iran i missili atomici israeliani puntati su Teheran?»
Sono più inquietanti le farneticazioni del presidente iraniano sull'Olocausto o i piani militari di Israele per attaccare l'Iran, la cui esistenza è nota da tempo ma di cui ora il Times rivela i dettagli (F-115 e F-116, assistiti da aerei radar Awacs, aerei cisterna, elicotteri, sono pronti a volare, violando lo spazio aereo di altri Paesi, fino a 1400 chilometri di distanza, per colpire, anche con atomiche "tattiche", Natanz, Isfahan, Arak, i siti dove gli iraniani stanno arricchendo l'uranio, a loro dire per usi civili)? È più preoccupante per il mondo che l'Iran abbia mandato in orbita un satellite per le comunicazioni, come li hanno moltissimi Paesi, L'Italia compresa, o che Bibi Netanyau faccia capire, un giorno sì e uno no, di voler attaccare l'Iran?

Su questa faccenda del satellite i giornali occidentali hanno titolato: "Allarme in tutto il mondo. In orbita satellite iraniano" e Washington ha fatto conoscere la propria "grave preoccupazione" perché "potrebbe far presagire lo sviluppo di un missile a lungo raggio da abbinare alla realizzazione di un ordigno atomico. Gli Stati Uniti sono pronti ad usare tutti gli strumenti della propria potenza nazionale per indurre l'Iran a essere un membro responsabile della comunità internazionale". Un doppio processo alle intenzioni, perché, al momento, c'è solo il satellite e nessun missile a lunga gittata né, tantomeno, c'è un ordigno atomico. Che, dall'altra parte, dalla parte di Israele, l'ordigno atomico ci sia e i missili a lunga gittata pure, non deve invece destare alcuna preoccupazione. L'intera "questione iraniana" corre sul filo della più pura illogicità e prepotenza.

Quando Teheran aprì i suoi siti per l'arricchimento dell'uranio gli Stati Uniti pretesero e ottennero dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che all'Iran fossero imposte della sanzioni. L'unica cosa che il Consiglio di Sicurezza poteva e doveva chiedere all'Iran, e solo in quanto firmatario del Trattato di non proliferazione, era la garanzia che l'arricchimento dell'uranio fosse adibito ad usi civili, cioè energetici, e non militari, per costruirsi l'atomica, e che quindi accettasse le ispezioni dell'Aiea, l'Agenzia dell'Onu per l'energia nucleare. Ma l'Iran fu sanzionato "a prescindere" nonostante questi siti fossero stati aperti proprio alla presenza degli ispettori dell'Aiea. E queste ispezioni sono continuate, con la piena collaborazione di Teheran, tanto che un mese fa l'Aiea ha inviato all'Onu un rapporto in cui dichiara che, al momento, l'arricchimento dell'uranio iraniano non è tale da poter permettere la costruzione dell'atomica. Ma tutti i giornali occidentali, o quasi, gocando su quel "al momento", hanno titolato: "L'Iran si sta costruendo la Bomba". Uno degli argomenti utilizzati dagli occidentali per giustificare il loro niet al nucleare civile iraniano è questo: ma che bisogno ha l'Iran di altre fonti energetiche quando ha già il petrolio? Ma a parte il fatto che la British Petroleum, che se ne intende, ha calcolato che nel 2049 non ci sarà più petrolio nel sottosuolo, un Paese avrà o no il diritto di diversificare le proprie fonti di energia senza dover chiedere il permesso agli americani? È come se noi italiani volessimo riaprire Caorso e qualcuno pretendesse di impedircelo perché, in teoria, da lì potremmo arrivare alla Bomba.

Questo "doppiopesismo", che fa infuriare non solo Teheran, che si vede lesa in un suo legittimo diritto, ma anche buona parte dei Paesi musulmani, e avvilisce chi in Europa cerca di avere una visione non totalmente autoreferenziale perché capisce che anche gli altri popoli possono avere verso di noi le stesse paure che noi abbiamo verso di loro, si basa sulla convinzione che esistono degli Stati "buoni", perchè democratici, e quindi "membri responsabili della comunità internazionale" che mai si sognerebbero di usare l'atomica, e Stati "cattivi", anzi "Stati canaglia" (definizione che fa il paio con quella di "Stato totalmente razzista" affibbiata da Ahmadinejad ad Israele alla recente Conferenza Onu di Ginevra), perché non democratici e quindi capaci di ogni avventurismo, anche di sganciare l'atomica. Beh, il solo Stato che attualmente ha precisi piani di attacco atomico ad un altro Paese è il democratico Israele e sarà bene ricordare che gli unici nella Storia che hanno usato la Bomba sono stati i campioni dei campioni della democrazia, gli Stati Uniti d'America. Ottantamila morti in un colpo solo, a guerra finita, e milioni di focomelici semplicemente per far sapere al nemico di turno, l'Unione Sovietica, che si era in possesso di quest'arma micidiale.

Chi è l'eversivo?

Oggi l'Imperator si è lanciato nelle consuete accuse contro la magistratura. L'ha definita eversiva perchè vuole sovvertire il voto popolare. A questo punto però, secondo me, è doveroso fare alcune precisazione che probabilmente saranno state fatte altre 300 volte in questi mesi e in questi anni, ma evidentemente bisogna continuare a ripetere ancora.
Prima di tutto credo che essere accusati di essere eversivi da parte di un piduista, ospite (nel senso che ospitò) di mafiosi, datore di lavoro di persone corrotte e vicine alla mafia, protetto da politici a loro volta corrotti e latitanti sia quantomeno singolare. Mettiamo pure che le condanne di Craxi, Dell'Utri e Previti siano dovute solamente al fatto che tutti i giudici siano comunisti, rimane comunque il fatto che Berlusconi sia stati iscritto a un'associazione segreta ed eversiva come la P2 e che abbia ospitato un personaggio come Mangano, anch'egli facente parte di un'associazione eversiva come Cosa nostra. Dunque Berlusconi è proprio l'ultimo che può andare ad accusare la gente di voler sovvertire la volontà popolare.
Poi bisogna domandarsi, ma è vero che i giudici milanesi hanno condannato Mills usando esclusivamente la fantasia? Francamente penso di no, per diversi motivi. Il primo è che non credo a una parola di ciò che dice Berlusconi, ma questo è ovvio. Poi bisogna sottolineare la fretta e la furia che ebbe il governo la scorsa estate, quando approvò immediatamente il lodo Alfano. Inoltre credo che i giudici siano molto più seri di quanto non sia Berlusconi e di quanto egli stesso non dica di loro. Infine credo che basti informarsi un pò su questo processo e su come è nato per capire che non è proprio tutta fantasia quella dei giudici milanesi.
Altro argomento che mi viene in mente è che ciò che dice Berlusconi è molto pericoloso. Dalle sue parole pare di capire che egli si ritenga al di sopra (dunque al di fuori) della legge in quanto amato dal popolo. Ciò significa forse che i potenti è giusto che infrangano la legge (tra l'altro scritta e approvata da loro)? Ciò significa che, se una persona qualsiasi, dovesse avere il voto del popolo sia anche legittimata a non rispettare la legge? Questo ragionamento è quanto di più pericoloso ci sia, è il preludio non solo alla dittatura e al totalitarismo, ma anche alla dittatura feroce, nella quale l'unica legge è la volontà dell'Imperator ed è giusto solamente ciò che vuole e che pensa lui. Io invece sono fermamente convinto che gli eletti dal popolo, i governanti e i giudici debbano rispettare la legge come e di più di un qualsiasi altro cittadino. Penso che una persona che esercita un potere dello stato, una persona che gestisce la cosa pubblica debba essere trasparente al massimo, penso che non possa in alcun modo permettersi di infrangere la legge. Altrimenti, e l'Italia ne è la prova, l'avrebbero vinta i furbi, i disonesti, i criminali, che resterebbero sempre impuniti, con danni gravi alla coesione sociale, all'economia, alla democrazia.
Infine credo che i cittadini abbiano il diritto di sapere che Berlusconi si è candidato dopo essere stato messo sotto processo per aver corrotto l'avvocato Mills, dunque non è che la magistratura vuole sovvertire un qualche voto popolare, semmai è lui che, in barba a qualsiasi decenza (in Italia comunque inesistente) si è proposto a guidare il paese. Gli italiani lo hanno votato certo, ma chi gli ha spiegato che mandare al governo uno così significa proteggere i vari Tanzi, i vari Cragnotti e dunque alimentare, nel nostro piccolo, la crisi mondiale, che deriva proprio da grandi personaggi disonesti dell'economia e della finanza?
Mi chiedo se gli italiani lo voterebbero ancora sapendo che, eliminando la corruzione di cui Berlusconi si fa protettore, potremmo recuperare quasi 300 miliardi di euro tra tasse in meno da pagare e servizi migliori derivanti da meno sprechi e meno burocrazia.

Le reazioni corrette

Di Bruno Tinti

La sentenza Mills si presta a due riflessioni.
Non sempre in una sentenza possono inserirsi considerazioni che riguardano persone diverse dall’imputato. Alcuni magistrati sono stati sottoposti a procedimento disciplinare per riferimenti non graditi dagli interessati e giudicati non necessari nell’economia generale dei provvedimenti emessi. Una delle incolpazioni mosse a De Magistris, per esempio, fu di aver inserito nella motivazione del decreto di perquisizione emesso nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane un riferimento alla relazione sentimentale di due magistrati, un PM e un giudice, il che gli venne contestato come violazione della privacy. In realtà poi il CSM si vide costretto a riconoscere la pertinenza del riferimento a questa storia privata perché essa li rendeva, ovviamente, incompatibili (il giudice che aveva una relazione con il PM non avrebbe dovuto giudicare nei processi istruiti da quest’ultimo). E poiché detta relazione era notoria o quantomeno nota al Procuratore Generale Tufano (indagato nel procedimento Toghe Lucane), la circostanza diveniva rilevante per dimostrarne l’asserita colpevole inerzia, in questa come in tante altre cose. Poi il CSM condannò ugualmente De Magistris (con una motivazione assolutamente insostenibile) ma dovette appunto riconoscere che il riferimento a terze persone era stato, in quel caso, legittimo.

Tirare in ballo altre persone nelle sentenze succede dunque spessissimo: non si può condannare un ladro senza far riferimento al proprietario della cosa rubata; né si può condannare taluno per rissa senza dare atto della partecipazione alla rissa di persone anche se non giudicate nello stesso processo (perché sono malati o perché sono minorenni o perché, magari, tutelati dal lodo Alfano).

Ora è evidente che è impossibile condannare qualcuno per corruzione senza far riferimento al corruttore e al contesto in cui la corruzione è maturata. Il Tribunale di Milano ha ritenuto valide le prove a carico di Mills; e ha motivato questo suo convincimento descrivendo, come era necessario che facesse, perché questi aveva ricevuto del danaro, quando e come lo aveva ricevuto e ad opera di chi. Non lo avesse fatto, la sentenza sarebbe stata dichiarata nulla per difetto di motivazione. Cosa che quantomeno i legali di Berlusconi (e dunque lo stesso Berlusconi) sanno benissimo. E infatti, nel panorama delle invettive ai giudici di Milano, questa contestazione, che avrebbe avuto almeno il merito di essere fondata su motivazioni tecniche, ancorché infondate, non è stata finora proposta. Il che ci porta alla riflessione numero due.

La furia di Berlusconi e dei suoi sostenitori riguarda la presunta grave inimicizia nei suoi confronti da parte del Presidente del collegio giudicante. Nicoletta Gandus è iscritta da anni a Magistratura Democratica, corrente di giudici comunisti e dunque, senza bisogno di ulteriori argomentazioni, ostili al Presidente del Consiglio: pertanto essa non è stata imparziale nella conduzione del processo e la sentenza emessa nei confronti di Mills (con i necessari riferimenti a Berlusconi) è ingiusta.

Il problema è che Berlusconi non è stato giudicato solo dalla Gandus. Il collegio era composto di tre giudici e nessuno ha ancora rivelato se e a quale corrente gli altri due fossero iscritti. E se non appartenessero a Magistratura Democratica? Oppure se non fossero iscritti ad alcuna corrente (come un buon terzo dei giudici italiani)? Berlusconi dovrebbe sapere (e i suoi legali lo sanno certamente) che l’opinione del presidente del collegio non vincola in alcun modo gli altri due giudici che dunque, essendo terzi e imparziali (ancora nessuno ha detto che non lo sono) si sarebbero certamente opposti al partigiano e ingiusto accanimento della Gandus. Sicché prendersela tanto con la militanza correntizia di questo giudice è privo di senso: ammesso e non concesso che la Gandus fosse ostile a Berlusconi, gli altri due restavano imparziali e avrebbero fatto il loro dovere.

Per la verità questo delirio di persecuzione impermeabile ad ogni ragionamento è abbastanza consueto nelle aule di giustizia. Molti imputati perdono ogni capacità di discernimento e di autocritica e si convincono a tal segno di essere nel giusto che non riescono a concepire come sia possibile che un giudice dia loro torto. Ricordo un rapinatore; era stato arrestato e giudicato colpevole in primo grado; poi, come capita, la Corte d’Appello aveva dovuto dichiarare la prescrizione e quindi assolverlo (perché era colpevole ma il reato era estinto). E lui aveva pensato bene di denunciare il PM (ero io), il GIP e i giudici del Tribunale per ingiusta detenzione, chiedendoci anche un congruo risarcimento danni. Naturalmente la sua denuncia è stata respinta, senza indignazione e senza ira, semplicemente perché infondata.

Ecco, questo penso debba essere l’atteggiamento che si deve avere nei confronti delle furiose reazioni di Berlusconi alla sentenza Mills: indifferenza e sopportazione. Proprio come si fa nei confronti di tanti imputati che non vogliono, proprio non vogliono, capire che i processi si fanno secondo la legge e che, se la sentenza non gli piace, non possono fare altro che impugnarla, fino alla sentenza definitiva. Che, dopo il giudizio della Corte Costituzionale sul Lodo Alfano, dovrebbe arrivare anche per Berlusconi.

giovedì 28 maggio 2009

Retroscena di un falso attentato

di Pino Cabras - 27 maggio 2009
“Attentato sventato a New York”, strombazzavano i media il 20 maggio 2009. La notizia ha meritato titoloni e tanti commenti che hanno riempito le “breaking news” e qualche paginone, ma finora si è indagato poco. Per la maggior parte dei media è scattato il riflesso di chi dice “non abbassiamo la guardia”.


E Dick Cheney, l’anima nera della precedente amministrazione USA, ne ha approfittato per l’ennesima tirata contro chi vuole smantellare il sistema da lui messo in piedi. Ma cosa è successo davvero a New York? Un’analisi appena più approfondita rivela sorprese clamorose.

Le vicende di “attentati sventati” degli ultimi anni mostrano in comune il ruolo ambiguo dei servizi di sicurezza.
Non fa eccezione l’ultimo caso newyorchese.

Scopriamo che i quattro «terroristi islamici» hanno una biografia da sfigati ricattabili, delinquenti abituali statunitensi di facile manipolabilità, e dal profilo jihadista improbabile. Il loro ordigno al plastico disposto dinnanzi a una sinagoga non è esploso, era “inerte”. Gli era stato fornito da un quinto elemento, un agente dell’FBI infiltratosi con la promessa di fornire un kit del perfetto terrorista che comprendeva anche un falso missile (per abbattere un aereo). Le mosse erano seguite passo dopo passo, di fatto governate, da molti mesi, in sinergia con altre agenzie federali.

Un importante elemento di raccordo fra i quattro e l’FBI era il cinquantaduenne pakistano Shahed Hussain, diventato informatore dell’agenzia federale dopo che nel 2002 era stato incriminato per banali reati legati a questioni d’immigrazione, e reso così prono ai ricatti. Hussein si presentava ai quattro con molta disponibilità di denaro e con promesse di procurare armi e ordigni speciali.

Ma il pezzo grosso dell’FBI è un altro. Risponde al nome di Robert Fuller. È un agente che ricompare in diverse vicende controverse, sin dalle circostanze legate agli eventi dell’11 settembre 2001.
Fuller nell’agosto del 2001 ebbe l’incarico di rintracciare e arrestare due persone molto sospette, Khalid al-Mindhar e Nawaf al-Hamzi. La segnalazione era giunta dalla CIA il 23 agosto dopo che i due erano giunti sul suolo USA. Qualche settimana ancora, e i loro nomi sarebbero stati ricompresi nella lista dei presunti dirottatori dell’11/9. La ricerca di Fuller fu talmente svogliata, che finanche la Commissione sull’11/9 ebbe a menzionarne l’indolente inefficacia.

Fuller riappare in cronaca nel novembre 2004. A Washington, sul marciapiede davanti alla Casa Bianca, un uomo si dà fuoco. È lo yemenita Mohamed Alanssi. Sopravvive con il trenta per cento del corpo coperto di ustioni. Nel frattempo emerge un documento di suo pugno nel quale spiega in qualche modo l’insano gesto. È una lettera per Robert Fuller, eccolo lì di nuovo, il quale lo aveva reclutato come informatore. Alanssi scrive di voler vedere la sua famiglia in Yemen prima di dover testimoniare in un tribunale USA su spinta di Fuller perché si dice certo che, dopo quella deposizione, la sua famiglia e lui stesso moriranno. Al «Washington Post» rivela: «Ho fatto un grosso errore a collaborare con l’FBI. L’FBI ha distrutto la vita mia e della mia famiglia, intanto che mi prometteva l’ottenimento della cittadinanza e di pagarmi 100 mila dollari». La somma fu erogata, ma Alanssi non acquisì la cittadinanza USA. La moneta di scambio era una testimonianza a carico di svariati imputati islamici.

Robert Fuller lo rivediamo in Afghanistan, all’aeroporto di Bagram, dove interroga - con i metodi disumani consentiti in questi anni di torture e pressioni - un quattordicenne afghano, Omar Khadr, orbo di un occhio dopo il combattimento in cui è stato catturato. A Khadr sono mostrate diverse foto di presunti guerriglieri, e gli viene chiesto un qualche riconoscimento. Fuller riesce a estorcere al giovane l’identificazione di un uomo canadese di origine mediorientale, Maher Arar, che a quel punto deve rispondere all’accusa di essere stato fra i guerriglieri afghani. Arar è arrestato sul suolo canadese e diventa uno dei tanti casi di «extraordinary rendition». Nell’incertezza giuridica sul grado di copertura sulle pratiche di tortura, Arar è consegnato alla Siria, dove ci sono meno esitazioni costituzionali sui supplizi di Stato (e questo è uno dei più stupefacenti casi di collaborazione fra paesi che altrimenti non si risparmiano atti ostili). Lì Arar viene torturato per mesi e mesi, come è avvenuto in tanti altri casi. Il ragazzo che lo ha accusato finisce intanto nel campo di Guantanamo, dove la commissione militare speciale lo processa nel gennaio 2009. Fuller è chiamato a testimoniare e l’agente FBI ribadisce che il riconoscimento di Arar è avvenuto sulla base di una foto. Il controesame del testimone spinge Fuller ad ammettere che all’inizio il riconoscimento non era stato così netto, anzi era proprio vago, e che solo una protratta «intensa pressione» aveva spinto Khadr a ricomporre in modo più assertivo il ricordo.

Peccato che nel frattempo gli inquirenti canadesi trovano le prove che il loro concittadino, proprio nel periodo in cui secondo Khadr e Fuller si trovava in Afghanistan, era invece in patria. Le autorità si rivolgono alla Siria per riavere Arar, evidentemente innocente. La sua storia viene raccontata dalla cronista Kerry Pither in un libro (Dark Days: The Story Of Four Canadians Tortured In The Name Of Fighting Terrorism).

E poi arriviamo all’ultima vicenda.
I quattro terroristi “islamici” fatti arrestare da Robert Fuller nel 2009 sono: James Cromtie, 44 anni, di cui 12 in prigione, un bugiardo patologico, un violento; David Williams, 28 anni, pluripregiudicato, il quale possiede una pistola da quando se ne compra una coi soldi datigli dall’FBI; Onta Williams, 32 anni, una vita dentro e fuori le prigioni; Laguerre Payen, 27 anni, pregiudicato, schizofrenico sottoposto a trattamento con psicofarmaci.
I quattro hanno incontrato questa caricatura di jihadismo soltanto perché un agente provocatore glielo ha proposto, con insistenze e azioni perseveranti, prospettando loro denaro e armi. Li ha messi insieme lui, insomma. L’allegra compagnia “islamista” non si priva di droghe, banchetti e sontuose bevute.
Il ritratto che emerge somiglia a quello di altri personaggi bizzarri che abbiamo imparato a riconoscere anche nelle cronache sulle deviazioni dei servizi segreti italiani nel corso degli anni, anche di recente, come nei casi di Mario Scaramella o Igor Marini. Sempre oltre il filo dell’impostura e della millanteria, questi soggetti compiono atti che si muovono macchiettisticamente lungo le frange esterne delle trame dei servizi segreti, con coperture, depistaggi, manovre che creano confusione, ma sempre disseminate di riconoscibili contatti con autorità governative. La commistione di vero e falso dei loro racconti e delle schede che li riguardano sembra indicare anche una loro strutturale indifferenza psicologica rispetto al confine tra verità e inganno. Basterebbe poco a smascherare le trame.

Tutta la vicenda dei quattro balordi di New York somiglia maledettamente a un sistema messo in piedi qualche anno fa nell’ambito della Guerra al Terrore. Un comitato di consulenti in seno al Pentagono, il Defense Science Board, nell’estate del 2002 ha proposto la creazione di una squadra di un centinaio di uomini, il P2OG (Proactive, Preemptive Operations Group, ossia Gruppo azioni attive e preventive), con il compito di eseguire missioni segrete miranti a ‘stimolare reazioni’ nei gruppi terroristici, spingendoli a commettere azioni violente che poi li metterebbero nelle condizioni di subire il ‘contrattacco’ delle forze statunitensi (1).

Il paradosso di una simile operazione è spinto fino a limiti estremi. Pare che il piano debba in qualche modo opporsi al terrorismo causandolo.

In base al documento prodotto presso il Dipartimento della Difesa statunitense, altre strategie comprendono il furto di denaro a delle cellule di terroristi o azioni di depistaggio attraverso comunicazioni false. Viene subito alla mente il caso del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il sequestro di Aldo Moro, nel lontano 1978, uno dei tanti depistaggi degli ‘anni di piombo’, quando erano in incubazione su scala limitata i metodi poi estesi alla globalizzazione della paura.

Gli atti precisi cui ricorrere per ‘stimolare reazioni’ nei gruppi terroristici non sono stati svelati, il tutto in ragione della riservatezza di fonti e contatti da non compromettere.

Un’organizzazione come questa è perfetta per creare confusione e depistaggi, quel genere di caos che si determina nel passaggio dall’«infiltrazione» alla «provocazione».

Il documento del Pentagono si spinge poi a spiegare che l’uso di questa tattica consentirebbe di considerare responsabili degli atti terroristici provocati quei paesi che ospitassero i terroristi, a quel punto considerati dei paesi a rischio sovranità.

Il grande giornalista investigativo Seymour Hersh, una mosca bianca fra la grande stampa, ha rivelato già all’inizio del 2005 che il P2OG è stato rimesso all’opera. Cosa svelava Hersh?

«Sotto il nuovo approccio di Rumsfeld, mi è stato riferito (da fonti interne ai servizi americani, ndr) che agenti militari USA sarebbero stati autorizzati all’estero a fingersi uomini d’affari stranieri corrotti, intenti a comprare pezzi di contrabbando che possano essere utilizzabili per sistemi d’armamento atomici. In certi casi, stando alle fonti del Pentagono, dei cittadini locali potrebbero essere reclutati per entrare a far parte di gruppi guerriglieri o terroristici. Ciò potrebbe comprendere l’organizzazione e l’esecuzione di operazioni di combattimento, o perfino attività terroristiche.»
Evidenziamo: «perfino attività terroristiche».

Anche il prossimo libro di Hersh, di imminente pubblicazione, sarà incentrato sull’esistenza di un mondo pseudo-terroristico e para-terroristico che ha pericolosi punti di contatto con strutture dotate di una qualche patina di legalità.

La recente vicenda di New York, così come le vicende degli attentati londinesi reali o sventati tra il 2005 e il 2007, e altri episodi ancora, sembrano indicare un metodo di lavoro molto consolidato, in grado di inquinare la scena pubblica con una paura indotta.

Berlusconi riesce sempre a cavarsela

di Eric Arends*

Sorprendente come i cittadini e i media accettino in massa le sue bugie

Da corrispondente in Italia mi sento spesso come Keanu Reeves nel film The Matrix, o Jim Carrey nel Truman Show. È una sensazione spaventosa: vivere e lavorare in una democrazia dell’Europa Occidentale che fu tra i fondatori dell’Unione Europea e fa parte di prominenti forum internazionali come il G8, e ciò nonostante sentirsi come i personaggi che lottano in angosciosi film su illusione e realtà.

Ma l’Italia di Silvio Berlusconi ne dà tutto il motivo. Quindici anni dopo l’ingresso di Berlusconi nella politica italiana, il paese si allontana sempre piú dai valori democratici essenziali.

Neo (Reeves) e Truman Burbank (Carrey) in The Matrix e The Truman Show si rendono conto che il loro intero ambiente vive secondo la sceneggiatura di un regista onnipotente. Però non vedono la loro sorpresa e preoccupazione al riguardo riflessa in alcun modo nella reazione delle persone che li circondano; tutti si comportano esattamente come se non succedesse niente di strano, o semplicemente non se ne rendono conto. Chi cerca di seguire e di capire la politica e la società in Italia inevitabilmente avrà la stessa esperienza.

Corrotto

Il raffronto si è imposto all’attenzione molto chiaramente il mese scorso. Nel pomeriggio di martedì 17 febbraio è apparsa sui siti dei principali giornali italiani una notizia dal titolo: ‘David Mills è stato corrotto’: condannato a 4 anni e sei mesi.

Riguardava una notizia esplosiva: il tribunale di Milano aveva riconosciuto l’avvocato britannico David Mills colpevole di corruzione per aver accettato 600 mila dollari da Silvio Berlusconi negli anni novanta, in cambio di rendere falsa testimonianza in due processi per corruzione istituiti contro l’imprenditore-politico. La sentenza contro Mills era altamente incriminante anche per il premier italiano dell’Italia, perchè se c’è un corrotto ci deve essere anche un corruttore.

Cose strane

Ma in Italia sono successe un paio di cose strane con questa notizia. Per iniziare diversi giornali hanno scritto la sentenza tra virgolette, come se si trattasse non di un fatto giuridico ma semplicemente di un’opinione personale da poter contestare con facilità. Ciò infatti è immediatamente successo.

Nel sito web del Corriere della Sera, un giornale di riguardo in Italia, vari lettori hanno messo in dubbio la sentenza del tribunale milanese. “Perchè questa sentenza arriva giusto 24 ore dopo le elezioni in Sardegna?” si chiede uno di loro. Il partito di Berlusconi, Popolo delle della Libertà (PdL), aveva vinto quelle elezioni regionali con una schiacciante maggioranza; l’isola italiana è tornata dopo lungo tempo in mano della destra, cosa che ha provocato una grande euforia negli ambienti del PdL.

I giudici hanno deliberatamente cercato di rovinare la festa con la loro sentenza, riteneva il lettore sopracitato.

Un altro ha fatto un ulteriore passo in avanti. Quella “ennesima sentenza fatta per rovinare la festa”, avverte i giudici, “servirà solo a rafforzare il nostro premier e la sua coalizione, quindi soprattutto continuate così e sparirete automaticamente, ciao ciao”.

Di per se queste reazioni si potevano archiviare come rigurgiti emotivi di accaniti sostenitori di Berlusconi. Ma stranamente i media italiani gli hanno dato del tutto ragione. Mentre la notizia veniva esaminata a fondo su emittenti straniere come la CNN e la BBC, l’interessante notizia é stata data di striscio dai telegiornali italiani.

Su RaiUno e RaiDue l’argomento è stato incastrato a stento in un minuto verso la fine dell’edizione serale. Su due delle tre reti commerciali di Berlusconi la sentenza è stata completamente ignorata.

Sentenza

E sul canale che ha sì riferito la sentenza, il cronista ha ancora definito l’accertato episodio di corruzione un “supposto pagamento” fatto dalla ditta Fininvest di Berlusconi, e ha chiuso il suo mini servizio con una lunga citazione di un parlamentare del partito di Berlusconi, il quale diceva che il presidente del tribunale di Milano “è chiaramente antagonista della persona di Silvio Berlusconi dal punto di vista politico”.

Come può succedere tutto ciò? Come si può negare e deformare così facilmente e massivamente la realtà? Da anni la stampa internazionale addita il gigantesco conflitto di interessi del premier.

Tutti conoscono Silvio Berlusconi come il grande uomo dietro più di settanta aziende, raggruppate in mega holdings come la Mondadori (la principale casa editrice di giornali, libri e riviste in Italia), Mediaset (la più grande holding televisiva del paese), Mediolanum (servizi finanziari) e la squadra di calcio AC Milan.

Groviglio di interessi

Berlusconi controlla buona parte dei media italiani e viene perciò chiamato da molti giornali stranieri ‘imprenditore-politico’ o ‘premier-magnate dei media’. Ciononostante questi termini dicono troppo poco sul modo in cui questo groviglio d’interessi influisce sulla società italiana.

In generale Berlusconi viene considerato l’uomo dalla parlantina facile e dal sorriso scolpito, il marpione rifatto con il brevetto sulle battute imbarazzanti (come quella su Barack Obama, che definì “giovane, bello e anche abbronzato”‘ un paio d’ore dopo l’elezione di quest’ultimo a presidente degli Stati Uniti). Come premier dell’Italia è perciò agli occhi di molti un buffone da non prendere troppo seriamente. Ma queste qualità da birbantello nascondono alla vista il suo illimitato potere e influenza che intaccano persino il DNA dell’Italia - e purtroppo non in senso positivo.

Le sue emittenti commerciali, il suo settimanale d’opinione “Panorama”, il quotidiano “Il Giornale” (del fratello Paolo) e una lunga lista di giornali di famiglia, si schierano quotidianamente con il loro padrone senza vergogna. Questo servilismo raggiunge forme così elevate che il giornalista televisivo nonchè capo-redattore dell’emittente Rete4 può emozionarsi in diretta leggendo la notizia della vittoria elettorale di Berlusconi.

Per la maggioranza degli italiani la televisione è la principale fonte di informazione, ed è quasi completamente sotto il controllo di fedelissimi di Berlusconi.

Modi sgarbati

Allo stesso tempo i membri dell’opposizione vengono buttati a terra in modo insolitamente sgarbato. Il più combattivo oppositore di Berlusconi, Antonio Di Pietro, da tempo viene chiamato ‘il boia’, o ‘il trebbiatore’ nel corso delle varie rubriche di attualità, che continuano a far vedere le sue foto meno lusinghiere, che immortalano il corpulento Di Pietro sul trattore, in pantaloncini corti.

Questo bizzarro approccio ‘giornalistico’ non scaturisce da una specie di naturale lealta’ dei dipendenti, ma da precisi ordini di servizio. Il giornalista italo-americano Alexander Stille cita nella sua biografia di Berlusconi “Il sacco di Roma” (tradotta in olandese come “Silvio Berlusconi/De inname van Rome), un ex vice-caporedattore de “Il Giornale”, che spaziava su come Berlusconi dava ordini alla redazione negli anni novanta: “Dobbiamo cantare in armonia sui temi importanti per noi (…) Voi, caporedattori, dovete capire che dobbiamo iniziare un’offensiva mirata con tutti i nostri mezzi contro chiunque ci spari addosso. Se quelli che ci attaccano ingiustamente vengono puniti usando tutti i diversi media del nostro gruppo, l’aggressione finisce”.

RAI

Nel ruolo di premier, Silvio Berlusconi esige più o meno la stessa apatia dagli impiegati statali, soprattutto all’interno dell’emittente statale RAI. Durante il conflitto in Irak, che aveva l’appoggio del precedente governo Berlusconi, i giornalisti della RAI non potevano definire gli oppositori della guerra “dimostranti per la pace” o “pacifisti”, ma dovevano chiamarli “insubordinati”.

‘Sei un dipendente dello stato!’ gridò Berlusconi contro il critico giornalista televisivo Michele Santoro un paio d’anni fa durante una trasmissione televisiva, riportandolo all’ordine. Santoro voleva togliere la parola a Berlusconi, che era in linea telefonicamente, perchè questi rifiutava di rispondere alle domande del giornalista, e voleva solo criticare il modo di lavorare di Santoro.

Criminoso

Durante una conferenza stampa in Bulgaria Berlusconi accusò Santoro e due altri giornalisti di aver fatto un ‘uso criminoso della televisione pubblica’. I tre avevano osato fare una trasmissione critica sul premier. In quello che da allora è diventato famoso come ‘l’editto bulgaro’, il premier esigeva che la direzione dell’emittente ‘non permettesse più che accadessero certe cose’. Qualche mese dopo i tre erano spariti dallo schermo.

L’Italia come paese democratico sta molto peggio di quanto molti credano. Ciò dimostrano le misure per la limitazione della libertà che questo governo sta prendendo o preparando (come la prigione per i giornalisti che pubblicano le intercettazioni telefoniche degli indiziati; pressione politica su medici e insegnanti per denunciare gli immigranti illegali alla polizia; limitazione dell’indipendenaza del potere giudiziario).

Ma lo stato preoccupante delle cose si rivela soprattutto nel modo apatico in cui stampa e pubblico ultimamente reagiscono a questo genere di piani. L’Italia si abbandona sempre di più alla realtà altamente colorata con cui viene abbindolata dall’apparato di potere di Berlusconi.

Duramente

Certo, giornali e riviste di opinione come La Repubblica, l’Unità e l’Espresso continuano ad andare duramente contro il premier quando è necessario. Ma sono predicatori nel deserto: i due principali giornali italiani hanno insieme una tiratura di solo 1,3 milioni, su una popolazione di quasi 60 milioni.

La televisione è per la stragrande maggioranza degli italiani la fonte di informazione principale, e ora è quasi tutta sotto monitoraggio di gente fidata di Berlusconi.

Inoltre, anche i giornali al di fuori dell’impero di Berlusconi sentono il suo braccio forte. Come il giornale torinese La Stampa, proprietà della Fiat. ‘Vista la situazione in cui versa la Fiat, La Stampa non si trova nella posizione di esprimere critiche nei confronti di Berlusconi, e ciò è altrettanto valido per numerosi altri giornali’, cosí il caporedattore Giulio Anselmi a Stille nel Sacco di Roma. ‘Oltre ai giornali che possiede, c’é tutto un cerchio concentrico di giornali che dipendono direttamente o indirettamente da lui’.

Il guastafeste

Il leader dell’opposizione Antonio Di Pietro racconta nel suo libro Il guastafeste [in italiano con traduzione nel testo, ndt], come sia stato apostrofato “assassino’ da due ragazzi, mentre passeggiava in Piazza Duomo a Milano.

Un tempo Di Pietro era l’eroe del paese per milioni di italiani, nella sua funzione di pubblico ministero dell’ampia operazione anti-corruzione Mani Pulite, che spazzò via un’intera generazione di politici e imprenditori imbroglioni all’inizio degli anni novanta. ‘Questo incidente’, dice Di Pietro a proposito dell’accaduto a Piazza Duomo a Milano, ‘dimostra che quei ragazzi a casa sono bombardati con falsa informazione dalla televisione’.

Dopo un decennio e mezzo, questo moderno indottrinamento sta dando così tanti frutti che Berlusconi osa negare persino le più incontestabili verità.

Proteste

Per esempio, l’anno scorso durante la massale protesta studentesca contro i tagli pianificati nell’istruzione. Gli studenti avevano occupato facoltà di diverse università, con grande irritazione di Berlusconi. ‘Oggi darò al Ministro degli Interni istruzioni dettagliate su come intervenire usando le unità mobili’, disse il premier nel corso di una conferenza stampa.

Quando l’opposizione gridò allo scandalo, Berlusconi il giorno dopo disse bellamente di non aver mai minacciato con le unità mobili. Ancora una volta era stato erroneamente citato dai giornalisti. Però tutti avevano potuto vedere e sentire che il premier l’aveva veramente detto; i suoi commenti erano stati trasmessi da radio e tv.

Nonostante quella prova schiacciante Berlusconi si ostinò sulla sua posizione. E con successo. Giacchè cosa dissero la sera i telegiornali? ‘Il premier dice di essere stato citato erroneamente’.

Democrazia

In una democrazia sana i giornalisti in servizio avrebbero come minimo fatto velocemente rivedere le immagini della conferenza stampa in questione, così da permettere ai telespettatori di concludere da sè se il premier fosse rimbecillito o no. Ma no. ‘Eventualmente, potrete rivedere la nostra trasmissione di ieri su internet’, ha sussurrato il redattore politico di RaiUno alla fine del servizio.

Considerando la situazione alla Matrix in cui versa l’Italia, il suo commento suonava quasi come un eroico atto di resistenza.

* Eric Arends è il corrispondente del Volkskrant a Roma

Le fiabe di Tremonti e le preghiere di Sacconi

di Emilio Carnevali

Confesso di esserci rimasto piuttosto male quando, fortunatamente già grandicello, ho appreso che una delle mie preferite favole dell’infanzia – Il mago di Oz – era in realtà una metafora di politica monetaria scritta in occasione della colossale deflazione del 1880-1896 negli Stati Uniti. L’autore del libro, il giornalista democratico L. Frank Baum, intendeva così sostenere l’introduzione di un sistema bimetallico (le babbucce di Dorothy erano infatti, nella versione originale, d’argento) che avrebbe aumentato l’offerta di moneta, fermando la deflazione e salvando così gli agricoltori del sud (lo spaventapasseri) e i lavoratori industriali (l’uomo di latta) strozzati dai pesanti debiti contratti. Nella realtà l’allora candidato democratico Bryan, sostenitore del Free Silver, fu sconfitto dal candidato repubblicano McKinley, rappresentante dei banchieri e dell’establishment conservatore delle grandi città orientali. McKinley mantenne il sistema aureo, ma grazie alla scoperta di nuovi giacimenti d’oro in Alaska, Australia e Sud Africa l’offerta di moneta aumentò lo stesso e con essa i prezzi e le precarie condizioni degli “spaventapasseri”.
Un trauma da infanzia negata a posteriori – quello di scoprire che la magica strada dorata che tanto aveva acceso la mia prolifica fantasia di bambino era in realtà “la corona di spine sulla testa dei lavoratori” (il gold standard) – dal quale solo ora riesco a riprendermi grazie all’immaginifico ministro dell’economia che la provvidenza ci ha portato in dote.
Già autore della celebre Robin Hood Tax, già gran maestro della finanza creativa, Giulio Tremonti ci dimostra infatti che dopo una lettura macroeconomica delle fiabe è possibile anche addentrarsi in una lettura fiabesca della macroeconomia.
Il governo Berlusconi non ha fatto praticamente nulla per contrastare la crisi economica in atto e le conseguenze di essa su cittadini e lavoratori, ma la filastrocca con la quale sono stati caricati a molla i suoi ministri e portavoce é che la l’Italia “sta reagendo meglio di ogni altro Paese europeo”. Questa affermazione è, semplicemente, una fiaba. I recenti dati Istat indicano che dall’inizio della crisi (che possiamo datare simbolicamente con il fallimento della Lehman Brothers), il Pil italiano ha registrato una flessione del 4,4 % in sei mesi (quarto trimestre del 2008 e primo del 2009 rispetto al terzo trimestre del 2008). Solo la Germania fra i grandi Paesi Europei ha fatto peggio, con un –5,8%, ma questo è comprensibile vista l’importanza dell’export per l’economia tedesca. Stanno invece meglio dell’Italia il Regno Unito (-3,5%), la Spagna (-2,8%) e la Francia (-2,4%).
Con tutto ciò Tremonti si è vantato ieri di fronte alla platea della Confcooperative che “la velocità di crescita del debito e del deficit è inferiore alla media europea e i dati italiani, corretti per il ciclo, dimostrano che è l'unico Paese che sta sotto il 3%” del rapporto deficit/pil. In sostanza si è vantato di non aver fatto nulla, al contrario dei governi degli altri Paesi europei, e ha poi rivendicato il risultato di conti pubblici in ordine se facessimo finta che non ci sia la crisi. Poteva aggiungere anche che se ipotizzassimo la scoperta di grandi giacimenti di diamanti sul Gran Sasso potremmo considerare l’Italia il maggior esportatore europeo di diamanti e che – si diceva al mio paese, sempre ai tempi della mia infanzia – se ipotizzassimo mio nonno dotato di ruote potremmo anche considerarlo una carriola.
Ma il passaggio dal filone fantasy all’epopea mistico-millenaristica è stato opera di un altro ministro, il prode Maurizio Sacconi (altro ex socialista), autore di una delle dichiarazioni più incredibili registrate negli ultimi mesi dalle agenzie di stampa: con il protrarsi della crisi – ha detto il responsabile del Welfare sempre all’assemblea di Confcooperative – “avremo bisogno dell'illuminazione della nuova enciclica sociale del Papa. Le nostre comunità, di fronte alla crisi saranno spaventate dalle incognite. Nell'attraversamento del guado, quando la notte è buia, non possiamo non rivolgerci a questi valori”.
E siamo così ritornati all’immaginario della mia infanzia, a quegli stupendi b-movie demenziali americani tipo “L’aereo più pazzo del mondo” (Jim Abrahams, David Zucker, Jerry Zucker, Usa 1980). A un certo punto del volo gli altoparlanti annunciavano ai passeggeri: “Niente panico, la situazione è assolutamente sottocontrollo… a proposito, c’è qualcuno che sa pilotare un aereo?”.

Più crisi, meno diritti

"Dietro alla crisi economica si cela un'esplosiva crisi dei diritti umani" denuncia il Rapporto annuale di Amnesty International. E per prevenire l'esplosione l'associazione lancia la campagna "Io pretendo dignità"

Andrea Pira

Giovedi' 28 Maggio 2009

Presentato a Roma il Rapporto 2009 di Amnesty International. Una denuncia della crisi economica, definita una bomba ad orologeria che può esplodere in ogni momento. Il Rapporto 2009 fotografa la situazione dei diritti umani in 150 Paesi nel mondo «Se prima i diritti umani erano messi in secondo piano in nome della sicurezza, ora lo sono in nome della crisi economica», queste le parole di Christine Weise, presidente della sezione italiana di. Alla presentazione sono intervenuti anche Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, Daniela Carboni, direttrice dell'ufficio campagne e ricerca, e l'attrice Sabrina Impacciatore testimonial della nuova campagna di Amnesty “Io pretendo dignità”.

Amnesty sottolinea l'esigenza di «un new deal dedicato ai diritti umani.». Evidenzia una correlazione tra l'aumento della disuguaglianza ,del razzismo della xenofobia e la mancanza di sicurezza, giustizia e dignità. Gli esempi più evidenti di questa crisi sono la negazione dei diritti indigeni in alcuni paesi in forte crescita economica come Brasile, India ed Messico; il vertiginoso aumento dei prezzi del cibo, la violenza sulle donne; le politiche restrittive come reazione alla pressione migratoria, gli sgomberi forzati di centinaia di migliaia di persone.

Emergenze evidenziate dai numeri: 963 milioni di persone nel mondo soffrono la fame, un miliardo di persone vive in insediamenti precari, 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all'assistenza sanitaria di base, 20 mila bambini muoiono ogni giorno perchè non hanno accesso a servizi igienici adeguati .

La nuova campagna mira a sensibilizzare i governi contro questi abusi puntando su tre temi fondamentali: mortalità materna, gli insediamenti abitativi precari, la responsabilità delle aziende. Un modo per dare voce e coinvolgere nelle decisioni chi è senza diritti.

mercoledì 27 maggio 2009

L'Italia e la crisi

1. Com'è noto, la crisi economica che l'Italia sta iniziando a vivere e che la condurrà, secondo le previsioni, a un biennio di crescita negativa, diventando in tal modo la più lunga recessione del secondo dopoguerra, è stata innescata da una crisi finanziaria nata negli Stati Uniti e propagatasi nel resto del mondo. Negli ultimi 60 anni in Italia vi sono stati solo 2 anni con una crescita negativa, il primo nel 1975 (-3,5%) e il secondo nel 1993 (-1,2%), mentre nel 2003 la crescita è stata nulla. Le previsioni per il 2008 sono di almeno mezzo punto sotto lo zero, mentre per il 2009 organismi internazionali come l'OCSE e la BCE prevedono una crescita negativa attorno al punto e mezzo percentuale.

2. Sempre nel dopoguerra, la crescita media annua dell'economia italiana è gradualmente calata lungo i decenni (una cosa normale, condivisa con le altre economie europee) passando dal 5-6% degli anni 50 e 60, al 3,5% degli anni 70, al 2,2% degli anni 80, all'1,5% degli anni novanta, iniziando in tale decennio a divenire inferiore a quella media europea (2%), e allo 0,9% di questi primi otto anni del nuovo millennio. Ciò fa pensare che la crescita potenziale dell'economia italiana sia ormai pari all'1% se non più bassa, con un divario crescente rispetto a quella media europea, la qual cosa facilita il rapido passaggio ad una crescita negativa appena qualcosa non va. Se le previsioni che ho ricordato si avvereranno la crescita media del decennio risulterà vicina allo 0,7%, la metà di quella avutasi negli anni 90 del secolo scorso e più o meno la metà di quella media europea di quest'ultimo decennio.

3. Per quanto riguarda la crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti il ministro del tesoro americano Paulson ha dichiarato che cose così se ne vedono una ogni secolo. Se consideriamo che il capitalismo industriale ha un po' più di due secoli di vita e che nel primo secolo le crisi finanziarie, che pur hanno costellato il suo sviluppo, non possono essere paragonate per profondità ed ampiezza a quella attuale, possiamo tranquillamente dire che questa è la più grande crisi finanziaria del capitalismo. C'è da sperare che non determini anche la più grande crisi economica, superando quella della Grande Depressione degli anni '30, quando negli Stati Uniti la disoccupazione è gradualmente salita dal 3% del 1929 a più del 25% nel 1933, con una contrazione del PIL reale del 30% e degli investimenti del 90%. Dopo il 1933 il tasso di disoccupazione è poi rimasto mediamente superiore al 18% fino al 1939.

4. Le prime avvisaglie della crisi finanziaria si sono avute nell'estate del 2007, quando negli Stati Uniti, in misura crescente, in connessione con la riduzione dei prezzi degli immobili, sono iniziate a diffondersi le insolvenze nel pagamento delle rate dei mutui ipotecari subprime, mutui concessi anche a fronte di capacità di rimborso dubbie, il che aveva ovviamente favorito l'estensione della concessione dei mutui. Se non si ripaga un debito, il debito scompare e con esso il relativo credito posseduto da qualcun altro. Questo qualcun altro può essere messo in difficoltà da questa insolvenza e a sua volta può non ripagare un suo debito e così via. Per questo motivo, data l'interrelazione debitori/creditori su cui il sistema finanziario si fonda, insolvenze consistenti in un punto possono provocare una generalizzazione di insolvenze a livello sistemico.

5. In questo caso l'effetto propagazione lo si è avuto anche perché i mutui dati localmente negli Stati Uniti sono stati impacchettati in titoli di credito commerciabili sul mercato, con tanto di valutazione da parte delle società di rating - indubbiamente un po' troppo compiacenti o distratte - e venduti in tutto il mondo (un po' come hanno fatto le banche italiane nel 2000 impacchettando i loro crediti verso la CIRIO in nuovi titoli commercializzabili e senza rating). Questo meccanismo sollevava gli enti erogatori dei mutui da qualsiasi rischio insolvenza che era sopportato dagli acquirenti dei titoli - un meccanismo che a sua volta incentivava la concessione di mutui a chicchessia. Parte di questi titoli sono stati acquistati da privati ma una parte ingente era posseduta anche dalle banche - di qui l'inizio delle difficoltà del sistema finanziario internazionale. Gli individui e le banche di tutto il mondo hanno così finanziato gli acquirenti di case negli Stati Uniti e una parte cospicua dei loro crediti è andata persa. Questo processo ha iniziato a generare incertezza sui mercati ripercuotendosi negativamente, oltre che sulle previsioni future, sul valore delle azioni e sulla crescita mondiale già a partire dalla fine del 2007

6. Così in poco tempo è potuto capitare l'inimmaginabile. In un anno a livello mondiale il valore delle azioni è mediamente crollato del 50%, con punte del 70-80% su alcuni titoli, le più grandi banche e assicurazioni degli Stati Uniti e del mondo sono state salvate dall'intervento dello stato o da altre istituzioni, tranne la banca d'affari Lehman Brothers il cui fallimento credo sia stato il segnale dell'estrema gravità di quel che stava succedendo divenendo esso stesso un acceleratore della crisi. Il panico si è diffuso anche tra i semplici depositanti che, alla ricerca di un porto sicuro per i loro risparmi, hanno accresciuto la quota detenuta di titoli pubblici. In Italia vi è stata anche una consistente migrazione di fondi dalle banche agli uffici postali e le grandi banche hanno messo in vendita il loro patrimonio immobiliare per aumentare il loro grado di patrimonializzazione.

7. I canali attraverso cui una crisi finanziaria diventa crisi economica sono molteplici. C'è il cosiddetto effetto ricchezza, vale a dire l'effetto sulla spesa per consumi dovuto alla drastica diminuzione del valore di mercato delle azioni (la ricchezza finanziaria percepita ) e in questo caso anche delle obbligazioni bancarie. Ci sono l'aumento dell'incertezza e il peggioramento delle aspettative che, uniti alla riduzione dei consumi, portano dopo un po' di tempo alla contrazione della spesa per investimenti. In questo caso l'incertezza è risultata accresciuta perché non si sapeva, e non si sa ancora ora, a quanto ammontavano e ammontano le perdite delle varie banche - anche a causa dell'estrema diffusione di investimenti speculativi finanziari da parte delle banche sui mercati dei derivati. Le grandi difficoltà finanziarie del sistema bancario, impegnate ad evitare il rischio di insolvenza, possono tradursi in una limitazione del credito alle imprese che riduce le loro possibilità operative. La riduzione generalizzata della fiducia e della spesa provoca il calo dell'attività economica a cui segue l'aumento della disoccupazione e la contrazione dei redditi da lavoro, generando un processo cumulativo recessivo (minor spesa, minor produzione, minor occupazione, minor spesa e così via).

8. Gli aiuti alle banche e all'economia da parte degli Stati tramite ingenti stanziamenti di fondi (per far fronte alle enormi perdite stimate dal FMI attorno ai 2.800 miliardi di euro - ma probabilmente l'ammontare è maggiore) e un complesso di misure, come l'aumento della garanzie pubbliche sui depositi bancari, le promesse di assistenza in caso di problemi di insolvenza e vere e proprie iniezioni dirette di denaro (per rimanere in Europa, si considerino i 10 miliardi dati dal governo olandese all'Ing Direct, la banca del conto Arancio, salvataggi che non si limitano al solo mondo della finanza ma coinvolgono anche altri settori, come l'industria automobilistica USA), la rapida riduzione dei tassi di sconto, giunto quasi a zero negli Stati Uniti, e le eccezionali iniezioni di liquidità effettuate dalle banche centrali a favore del sistema finanziario sono le misure che hanno cercato e cercano di evitare il fatto che la più grande crisi finanziaria del capitalismo possa diventare anche la più grande crisi economica del capitalismo.

9. Negli Stati Uniti la Grande Depressione si è infatti approfondita anche perché molte banche sono state lasciate fallire da una politica monetaria inappropriata, che ha così consentito, con il fallimento delle banche, la distruzione a catena di potere d'acquisto delle famiglie e di capacità di credito del sistema bancario. E' stata anche amplificata da politiche di bilancio sbagliate, come nel 1932, quando il presidente Hoover ha aumentato le tasse pensando che la causa della crisi del settore privato fosse il disavanzo pubblico, con l'effetto di ridurre ulteriormente la capacità di spesa dell'economia. Da allora si è capito che, se possibile, in questi frangenti occorre fare sia politiche monetarie che politiche di bilancio fortemente espansive per sostituire e incentivare la spesa privata che si sta contraendo causando effetti deleteri sull'occupazione. Quindi le politiche che si stanno attuando derivano dalla lezione della Grande Depressione. Per quanto riguarda l'eurozona, vi sono state l'attenuazione del Patto di Stabilità per permettere politiche di bilancio più espansive e la politica monetaria espansiva della BCE (che senz'altro continuerà a gennaio).

10. Questo tipo di politiche, di forte stimolo della spesa e di iniezioni di liquidità fino a quando è necessario, sono un atto dovuto. Quali invece le valutazioni di più lungo periodo? Per rispondere credo occorra considerare che se la crisi si è originata dalle insolvenze dei subprime, essa è stata facilitata, se non addirittura causata, da politiche fiscali e monetarie statunitensi troppo espansive nel periodo 2003-2004 le quali hanno portato verso limiti insostenibili gli squilibri interni degli Stati Uniti, politiche in gran parte determinate dalle esigenze del ciclo politico americano e dal finanziamento della guerra in Iraq. E' dall'inizio degli anni '80 che gli Stati Uniti hanno iniziato a consumare più di quanto stavano producendo e quindi hanno importato più di quanto esportavano. Il disavanzo negli scambi con l'estero causa ovviamente un indebitamento generale dell'economia verso l'estero di pari ammontare. L'accumularsi di questo indebitamento annuo ha portato gli Stati Uniti, nel 1988, a diventare, da creditore, debitore netto nei confronti del resto del mondo. Si è così assistito al fatto che per trent'anni l'economia più ricca è stata finanziata dal risparmio mondiale - un fatto contrario a qualsiasi logica economica: il risparmio mondiale non finanzia lo sviluppo dei paesi meno ricchi ma quello del paese più ricco.

11. Negli ultimi anni i disavanzi negli scambi con l'estero statunitensi, già elevati, sono ulteriormente aumentati: tra il 2004 e il 2007 sono stati mediamente del 6% del PIL (equivalenti, agli attuali tassi di cambio, a circa 4.000 miliardi di vecchie lire al giorno), nel 2008 pare sia vicino al 7% e il debito estero sta viaggiando verso il 40% del PIL - dati che sono pari a quelli di un paese indebitato del terzo mondo. Negli Stati Uniti le famiglie sono indebitate con gli intermediari finanziari per 13.500 miliardi di dollari, un ammontare vicino al 100% del PIL americano. Non si può stare su un sentiero di crescita sostenibile continuando ad indebitarsi all'infinito. Prima o poi deve avvenire l'aggiustamento oppure ci si scontrerà con un periodo molto complicato. Tra le altre motivazioni alla radice della crisi non vanno assolutamente dimenticati i ritardi della regolazione sulla continua evoluzione dell'innovazione in campo finanziario, che ha consentito alla finanza un eccesso di comportamenti puramente speculativi, slegati da qualsiasi rapporto con la produzione. Anche l'operato delle agenzie di rating, che hanno valutato titoli troppo rischiosi con una doppia o tripla A, ha aiutato il formarsi della crisi e da ultimo, ma non meno importante, non va dimenticato l'aumento dei divari nella distribuzione del reddito favorito dal processo di globalizzazione, un fatto che ha reso più instabile il processo di sviluppo riducendo il reddito e quindi le capacità di spesa senza indebitamento di una buona parte dei lavoratori.

12. A fronte di questi fatti e considerando le valutazioni di più lungo periodo, non si può che trarre la conclusione che è entrato in crisi, se non addirittura finito, il ciclo neo-liberista affermatosi agli inizi degli anni 80, nato a sua volta dalla crisi del sistema di regolazione keynesiano verificatasi negli anni 70 del secolo scorso, neo-liberismo che così tanto ha influenzato le politiche economiche mondiali. Sono partite da questa ispirazione la spinta verso una forma di stato minimale, con le connesse deregolazioni e liberalizzazioni dei mercati, le privatizzazioni e le flessibilizzazioni del mercato del lavoro. La chiusura di questo ciclo significa che si dovranno definire i lineamenti del nuovo contesto di politica economica dello sviluppo mondiale. Compito non facile, se si pensa che occorre definirlo non riferito a economie chiuse, ma rapportarlo ad economie aperte globalizzate e che su alcune questioni da affrontare, come la necessaria regolamentazione e vigilanza prudenziale dei mercati finanziari, non vi è per ora una sufficiente convergenza teorica tra gli studiosi. Appare in ogni caso tramontata l'idea che il mercato sia sempre in grado di autoequilibrarsi, mantenendo un livello di occupazione accettabile senza l'aiuto e la partecipazione dello stato. Se fosse stato assente lo stato, come pure le pronte risposte della politica monetaria, la crisi avrebbe assunto dimensioni spaventose. Stato e mercato sono istituzioni complementari entrambe necessarie per governare la complessità dei processi economico sociali capitalistici avanzati. Lo stato può orientare la produzione verso obiettivi socialmente ed economicamente desiderabili a fronte di evidenze oggettive (come la riconversione energetica), lo stato può ripristinare un'accettabile equità economico sociale che quasi ovunque si è persa o si sta perdendo e che funge da stabilizzatrice del processo economico.

13. Se ora, per concludere, ritorniamo al nostro paese e guardiamo più da vicino l'Italia, i dati economici nazionali e anche quelli piemontesi ci rimandano ad una realtà che è stata descritta in via generale all'inizio. Le indagini sulle aspettative e sulla fiducia compiuti dall'ISAE testimoniano il progressivo deterioramento della situazione economica corrente ed attesa in tutti i settori: soprattutto nell'industria, ma anche nelle costruzioni, nei servizi, nel commercio e tra i consumatori. In particolare l'indice di fiducia delle imprese manifatturiere è prossimo a quello del 1993. Unioncamere ha rilevato come dal terzo trimestre di quest'anno in tutti i comparti produttivi piemontesi sia in atto una seria contrazione della produzione, con prospettive di netto peggioramento nel futuro. La cassa integrazione e le richieste di cassa integrazione stanno aumentando e molti contratti a tempo determinato non saranno rinnovati. La sfiducia inizia a divenire palpabile.

14. A livello di politica economica l'Unione Europea ha invitato gli stati a creare stimoli - vale a dire più spese - per l'economia, tramite politiche fiscali espansive, pari all'1,2% del PIL europeo, a cui avrebbe aggiunto un ulteriore stimolo dello 0,3% tramite i finanziamenti della BEI. Le politiche monetarie espansive possono essere utili per salvare le banche e per ridurre il costo del credito - ma in frangenti come questo, in cui l'incertezza è elevata e le aspettative sono volte al peggio, la riduzione del costo del denaro può essere inefficace per convincere le imprese a indebitarsi per effettuare nuovi investimenti produttivi. E' quindi indispensabile intervenire con la politica di bilancio che può influire sulla spesa aggregata con più certezza. Finora l'invito dell'Unione Europea è stato raccolto solo in parte. Sono stati previsti, da parte di 18 stati, stimoli per circa lo 0,8% del PIL. Su questo terreno la politica del governo italiano non ha fatto grandi cose - anzi ha praticamente fatto nulla - e il suo comportamento può essere definito come attendista. Il cosiddetto "decreto anticrisi" approvato da poco è, come impatto macroeconomico, irrilevante, ed è passato progressivamente dai famosi 80 miliardi promessi da Tremonti il 16 novembre a zero. I calcoli della commissione Bilancio della Camera mostrano infatti che il decreto si risolve in un aumento della spesa pubblica di 3 miliardi ed in aumento delle entrate di 3,4 miliardi - in pratica un effetto prociclico. E' vero che grava sulla politica di bilancio il debito pubblico accumulato nel passato, che limita oggettivamente la possibilità di attuare politiche di bilancio espansive di un certo peso che potrebbero creare disavanzi eccessivi, ma sarebbe grave se questo attendismo, anziché essere determinato da considerazioni comunque legate all'interesse generale, mascherasse invece mere considerazioni dettate da interessi di parte in un momento in cui è assolutamente necessario ripristinare al più presto la fiducia delle imprese e dei cittadini, base necessaria affinchè la situazione economica non corra il rischio di diventare ancor più pesante di quel che dicono attualmente le previsioni.


17.12.2008 Piero Garbero

La corsa cinese al petrolio africano

Irene Panozzo

Marocco, Nigeria, Kenya: queste le tappe del viaggio che a fine aprile ha portato il presidente cinese Hu Jintao in Africa. Un viaggio salutato come importante, con soste non casuali, e che segue di pochi mesi quello del ministro degli Esteri di Pechino, Li Zhaoxing, che a metà gennaio aveva visitato Capo Verde, Senegal, Mali, Nigeria, Liberia e Libia. A fare da sfondo, gli accordi di cooperazione di ogni tipo, culturale tanto quanto economica, tecnica, militare e/o medica. Ma con un occhio particolare alle riserve africane di petrolio e gas, quelle già conosciute e quelle ancora da scoprire, necessarie per far mantenere al paese asiatico il rapido passo di una crescita economica in continua espansione.
L’attivismo economico e politico cinese nel continente africano, decollato senza far rumore e con molto pragmatismo una decina di anni fa, è ormai diventato un elemento rilevante e definitivo. Che ha attirato l’attenzione (e le preoccupazioni) del resto del mondo. L’interesse della Cina per l’Africa è “a tutto tondo”, anche se sicuramente la parte del leone nell’attrarre capitali cinesi nel continente l’ha avuta la ricchezza dell’Africa, le sue riserve naturali, energetiche e minerarie, e i suoi mercati di facile penetrazione, su cui riversare i manufatti cinesi, di buona tecnologia ma di poco prezzo. E la corsa cinese al petrolio africano non sembra arrestarsi, anzi. Tra gli appuntamenti previsti durante la visita di Hu Jintao in Nigeria, dieci giorni fa, c’era anche la formalizzazione dell’acquisizione da parte della China National Offshore Oil Corporation (Cnooc) del 45% della concessione di proprietà della South Atlantic Petroleum che comprende importanti giacimenti offshore sia di petrolio che di gas. Un accordo da più di due miliardi di dollari, che era stato firmato, guarda caso, lo scorso gennaio, in coincidenza con la visita nel paese del ministro degli Esteri Zhaoxing, e che per poter diventare ufficiale attendeva solo il beneplacito delle autorità nigeriane.
L’accordo firmato dalla Cnooc per il petrolio nigeriano ha aggiunto un tassello importante al mosaico della presenza cinese nel settore petrolifero africano. La Nigeria, con circa due milioni e mezzo di barili prodotti quotidianamente, è il maggior produttore del continente e il sesto esportatore mondiale, nonché membro dell’Opec e quinto fornitore di greggio degli Stati Uniti. Che hanno la dichiarata intenzione di usare il petrolio africano per arrivare, entro il 2015, a coprire il 25% del fabbisogno complessivo interno, facendo soprattutto uso del petrolio del Golfo di Guinea. Quello nigeriano quindi, ma anche quello della Guinea Equatoriale e dell’Angola, secondo produttore petrolifero del continente.
Non sorprende quindi che la penetrazione cinese possa dare fastidio e creare degli allarmi. Anche se il fabbisogno petrolifero statunitense rimane molto più alto di quello cinese, quest’ultimo è in continua e rapida crescita. E Pechino usa ogni strumento a sua disposizione per assicurarsi nuove fonti di approvvigionamento. È quel che è successo negli ultimi anni con l’Angola, paese escluso dall’assistenza delle istituzioni finanziarie internazionali e dai crediti dei principali paesi donatori per l’alto indebitamento e la totale mancanza di trasparenza. Elementi non rilevanti per la Cina, che ha colmato il vuoto lasciato dai donatori internazionali garantendo al governo angolano una linea di credito di più di due miliardi di dollari. Da ripagare con forniture dirette di greggio, che nei primi mesi del 2006 hanno raggiunto la quota di quasi 500mila barili al giorno, una cifra che da sola basta a coprire il 15% del fabbisogno giornaliero cinese. L’Angola è così diventata il principale fornitore di greggio di Pechino, superando il Sudan, che aveva finora detenuto il record in Africa, ma anche Iraq e Arabia Saudita.
L’attenzione riservata agli altri paesi non ha comunque impedito alla Cina di continuare a tenere saldo il controllo di buona parte del petrolio sudanese. Il Sudan è una sorta di figlio primogenito, lo stato in cui Pechino ha messo a punto e ha verificato sul terreno la sua strategia di penetrazione nel continente. Il fatto che le compagnie cinesi non debbano rispondere delle loro azioni e del loro eventuale coinvolgimento in situazioni di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani a un’opinione pubblica sensibile a questi temi ha sicuramente favorito la stretta collaborazione che si è creata tra Pechino e Khartoum. Il Sudan rimane quindi l’esempio a cui fare riferimento anche per quei governi, e non sono pochi, che preferiscono non dover sottostare a richieste politiche e a controlli troppo pressanti. Inoltre, dal punto di vista strettamente geografico, il Sudan offre un ottimo punto di partenza per allargare la sfera d’influenza e d’azione ai paesi confinanti, paesi dove il petrolio è ancora tutto (o quasi) da scoprire. Le tre principali compagnie petrolifere di stato cinesi, la Cnpc, la Cnooc e la Sinopec, si stanno ritagliando sempre più spazio nell’acquisizione di diritti per l’esplorazione e lo sfruttamento del greggio di questa regione dell’Africa. Mentre la Cnpc è impegnata in prospezioni nel Ciad sud-orientale e nell’Etiopia occidentale (entrambe, guarda caso, zone di confine con il gigante sudanese, nel cui settore petrolifero la Cnpc fa la parte del leone), la Cnooc ha concluso un accordo con il Kenya per la prospezione e l’eventuale trivellamento di uno dei tanti blocchi lungo la costa.
Il coinvolgimento della Cnpc da entrambe le parti del confine tra Sudan e Ciad potrebbe avere un ruolo importante anche nella crescente instabilità che dal Darfur, regione sudanese al confine con il vicino occidentale, si sta progressivamente espandendo all’ex colonia francese. Secondo alcune fonti, Pechino avrebbe garantito assistenza ai ribelli ciadiani che nelle settimane scorse sono arrivati fino alla capitale ‘Ndjamena. In cambio, forse, di un’assicurazione per il futuro: i diritti per lo sfruttamento del sottosuolo della regione da cui provengono, quella al confine con il Darfur.

Black out sui conti mafiosi

PALERMO - Basta disattivare una password per rafforzare Cosa Nostra. Una sequenza di numeri e lettere che dal 5 marzo è stata tolta alla Procura di Palermo che, da oltre due mesi, non può più monitorare e sequestrare i conti correnti bancari dei boss.
Mentre la repressione va avanti senza sosta – con un'azione investigativa costante anche sul fronte dei rapporti deviati tra mafia e politica, decine di processi in corso e centinaia di arresti di boss e affiliati che sfiancano l'esercito delle cosche - la lotta ai capitali mafiosi, vale a dire il cuore dell'azione di contrasto, fatica.
Con quella password – che apre i file dell'Anagrafe dei rapporti finanziari – magistrati e polizia, sotto copertura, dal 5 gennaio al 4 marzo, accedevano ogni giorno ai conti, ai depositi, ai dossier titoli e alle transazioni da un capo all'altro del mondo di Cosa Nostra. «Dalla sera alla mattina – spiega il procuratore aggiunto di Palermo, Roberto Scarpinato – i ministeri della Giustizia e dell'Economia ce l'hanno tolta per motivi burocratici dopo avercela data, per grazia ricevuta, a distanza di 18 anni dalle previsioni legislative. La restituzione di quella password, a noi e a tutte le Procure, è la maniera migliore per onorare con i fatti e non a parole la memoria di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, morti 17 anni fa a Capaci».
«Con questa revoca – prosegue Scarpinato – siamo tornati agli anni in cui bisognava fare richiesta di informazioni a ogni singola banca. Nelle regioni del Sud c'è un problema ulteriore: il tessuto creditizio è profondamente inquinato, molte operazioni sospette vengono fatte sparire e non manca chi avvisa i boss delle indagini in corso. In questi mesi, a causa di questo scippo, abbiamo perso l'occasione per sequestrare miliardi. Scandalo nello scandalo, la password non è stata data neppure alla Banca d'Italia che ha il compito di contrastare il riciclaggio dei capitali sporchi».
Battere Cosa Nostra sul terreno dei capitali e dei patrimoni inquinati è un chiodo fisso per magistrati, Forze di polizia e Gdf, che spingono l'acceleratore su sequestro e confisca dei beni immobiliari, la cui gestione è affidata a un Commissario straordinario, anche se i più spingono per la creazione di un'Agenzia autonoma. Alla fine del 2008 i beni confiscati erano 8.466 (di cui 3.930 in Sicilia), con un valore di mercato di decine di miliardi.
Ma prima che gli immobili sequestrati rientrino nel pieno godimento della collettività passano anche 17 anni e sono numerosi i casi di prestanomi della mafia che ne sono rientrati in possesso.
La Procura di Palermo, di fronte alle difficoltà, rilancia: a giorni sarà potenziato il Dipartimento "Mafia ed economia" che conta su un pool di magistrati e investigatori specializzati nella lotta all'economia illegale. Finora i risultati non sono mancati: da gennaio 2008 a oggi la Procura ha sequestrato 2,7 miliardi tra beni mobili e immobili. «La lotta a Cosa Nostra – conclude Scarpinato – passa da qui, il resto sono chiacchiere. L'arresto di 100 estorsori serve ma tra due mesi ce ne saranno altri 100 pronti a chiedere gli arretrati con gli interessi. Per questo chiediamo a commercianti e imprenditori di denunciare e a Confindustria Sicilia, che espelle chi paga il pizzo, sollecitiamo un passo in più: l'allontanamento di tutti coloro che hanno avuto una sentenza passata in giudicato o hanno processi in corso per mafia». «Nonostante la ribellione di Confindustria e associazioni come Addio Pizzo – aggiunge il magistrato della Direzione nazionale antimafia Roberto Alfonso – il fenomeno estorsivo non è arretrato di un millimetro. Anzi: è in pericolosa crescita». I dati della Direzone investigativa antimafia, diffusi ieri, sembrano confermarlo: le denunce 2008 per estorsione, usura e riciclaggio sono in calo (si vedano grafici). Ad Andrea Vecchio – a capo degli edili catanesi e una vita blindata, il prezzo pagato al coraggio della denuncia – spetta un commento. «Burocrazia e malapolitica – spiega – non aiutano chi denuncia e chi si espone. La repressione dello Stato fa passi in avanti ma non basta, non basta».
Insomma, il circuito di legalità che parte dal basso fa fatica. Gli imprenditori condividono e criticano. A partire da Giuseppe Catanzaro, vicepresidente di Confindustria Sicilia, altra esistenza blindata per le continue minacce di morte. «Dobbiamo capire – afferma – che Cosa Nostra ha il solo fine di creare profitto. Per sconfiggerla bisogna però avere la certezza che chi viene condannato resti in cella e viva da povero. Invece le scarcerazioni dei boss e degli estorsori si susseguono e non vedo né il Governo né il Parlamento asserire in maniera corale questo banale principio. Quanto all'invito di Scarpinato, Confindustria Sicilia lo ha già fatto suo: è sospeso chi ha un processo, viene cacciato chi è stato condannato. La stessa severità vorrei vederla nelle pubbliche amministrazioni che devono cacciare i dirigenti che ritardano i procedimenti amministrativi a danno delle imprese oneste e a favore di quelle mafiose. Ci sono ancora troppi politici locali che non adottano i principi di questa catena di legalità».
Nel giorno in cui sarà posata l'ennesima corona di fiori a piedi dell'albero Falcone a Palermo, servirà forse spostare lo sguardo un pò più in là, verso il porto di Palermo, dove oggi attracca la nave con studenti provenienti da ogni parte d'Italia, partita ieri da Napoli. «E allora converrà ricordare – rammenta Maria Falcone, sorella del giudice – le parole di Gesualdo Bufalino».La mafia - amava ripetere lo scrittore di Comiso - sarà sconfitta da un esercito di maestri elementari. Speriamo che sappiano insegnare che una password non serve solo per accedere a Facebook ma anche per bruciare i soldi sporchi e con loro l'anima di Cosa Nostra.

martedì 26 maggio 2009

A Giovanni Falcone. Brusca: ''Riina mi disse chi era il terminale della Trattativa''

di Anna Petrozzi e Silvia Cordella - 23 maggio 2009

Roma. “Siamo qui per accertare la verità”. Con una semplice quanto ovvia dichiarazione il giudice Mario Fontana, che presiede il processo a carico del generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, interroga e lascia interrogare più volte dalle parti i collaboratori di giustizia Ciro Vara e Giovanni Brusca nel corso delle due udienze che si sono tenute a Roma, presso l’aula bunker di Rebibbia il 21 e il 22 maggio scorsi.
Accertare la verità in questo caso non significa soltanto stabilire, come sostengono a gran voce gli avvocati difensori dei due imputati, di chi sia la responsabilità della fallita cattura di Provenzano quel 31 ottobre 1995 a Mezzojuso, ma anche e soprattutto comprendere quali possano essere state le ragioni che potrebbero aver spinto uomini dello Stato a proteggere la latitanza del capo di Cosa Nostra, colpevole di decine di omicidi e delle peggiori stragi che hanno insanguinato la Sicilia e l’Italia.
Non è quindi materia semplice e nemmeno si può fingere di poter valutare il singolo fatto senza incastonarlo nell’enorme quadro che abbraccia il biennio più buio della recente storia della Repubblica. Tra il 1992 e il 1993 infatti non solo sono esplose le bombe di Capaci e via D’Amelio e poi “in continente”, ma sono mutati radicalmente gli equilibri politici del nostro Paese e Cosa Nostra ha gettato le basi per risorgere dopo un’apparente disfatta. E tutti questi eventi dopo anni e anni di faticosa ricostruzione sembrano essere più collegati di quanto si creda.
Non sorprende affatto perciò che le domande poste dal Pubblico Ministero, rappresentato in aula dai procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, a Giovanni Brusca si siano concentrate in modo particolare sulla cosiddetta “trattativa”, il dialogo avvenuto tra mafia e stato a cavallo delle stragi in cui morirono i due giudici simbolo della lotta alla mafia.
Giovanni Brusca collabora con la giustizia dal 1996. Si decise a “saltare il fosso” quando sentì dire da Salvatore Cancemi, altro collaboratore, che Riina, l’uomo che ammirava e serviva più di suo padre stesso, voleva ucciderlo.
L’ex boss di San Giuseppe Jato è stato sentito decine di volte sulle manovre che Salvatore Riina aveva pianificato per ottenere dallo stato nuovi interlocutori politici e soprattutto benefici carcerari e giudiziari. Dopo la sentenza di Cassazione del 31 gennaio 1992 l’allora capo di Cosa Nostra in carica aveva dato inizio al suo particolare modo di colloquiare facendo assassinare Salvo Lima, il grande interlocutore politico della mafia. Tanto per lanciare un segno chiaro ed inequivocabile. Poi toccò al grande nemico: Giovanni Falcone.
Fu dopo Capaci, secondo Brusca, che “qualcuno” dello Stato si era “fatto sotto” per chiedere una tregua in cambio della concessione di qualche privilegio.
“Quando vidi Riina aveva una faccia, un’espressione, di grande soddisfazione”, spiega il collaboratore, “mi disse, indicandolo con le mani, che gli aveva fatto un papello tanto, cioè tutta una serie di richieste per migliorare la nostra condizione”.
Solo in sede processuale, quindi dopo il suo arresto, Brusca apprese che il generale Mori e il capitano De Donno erano gli interlocutori di Riina che aveva come tramiti Vito Ciancimino e il dottore Antonino Cinà.
Se i nomi dei due fiancheggiatori non lo sorpresero affatto, poiché ne conosceva il ruolo, il pentito si scandalizzò invece di sapere che il suo capo stava trattando il nemico, che aveva fatto il patto con il “diavolo”, secondo la visuale distorta dei valori mafiosi.
In ogni caso se si sono individuati i tramiti resta da stabilire chi sia il “terminale”, cioè chi riceveva le richieste e decideva in merito.
Mori e De Donno hanno sempre negato che vi fosse qualsiasi altra entità dietro al loro operato e che il fine fosse quello della cattura dei latitanti, ma Brusca rivela di essere a conoscenza di quel nome. E quella confidenza gliela fece Riina in persona.Di fronte alle domande del Pubblico Ministero, degli avvocati e persino del Presidente, però, Giovanni Brusca tace, si avvale della facoltà di non rispondere; ormai avvezzo ai trucchi del dibattimento, non cede di un passo e si trincera nel più assoluto silenzio poiché specifica: “vi sono indagini in corso”.
Semplicemente concede un unico: “feci quel nome in tempi non sospetti”.
Ripercorrendo documenti e articoli inerenti le decine di deposizioni di Brusca ai tantissimi processi per i fatti di quell’epoca l’unico nome che sia mai emerso è quello dell’allora Ministro dell’Interno Nicola Mancino quale possibile ricevente ultimo delle richieste della mafia.
Brusca non lo ha mai fatto direttamente. Fu Francesco Viviano in un articolo del 2001 a scrivere il nome del politico che però ha sempre smentito di aver saputo di una qualsivoglia trattativa.
Non è dato di sapere se Brusca si riferisca a questa vicenda oggi, conforta apprendere che vi siano ancora indagini in corso in questo senso e si spera che approdino presto a fatti da poter accertare.
E’ possibile che la tanto attesa audizione a questo processo di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito e testimone diretto proprio degli episodi della trattativa, possa fornire quei riscontri finora mancanti.
L’eventuale coinvolgimento del ministro Mancino si ricollega anche con il mistero che avvolge la morte di Paolo Borsellino. E’ un dato storico assunto che il giudice si fosse guadagnato l’odio di Cosa Nostra con il suo operato, ma la tempistica così accelerata e le modalità esecutive, in parte ancora non individuate, con cui è avvenuta la strage di Via D’Amelio hanno sempre lasciato presagire responsabilità altre come il giudice stesso ebbe a confidare alla moglie e alle persone a lui più vicine. Sull’agenda del magistrato infatti è segnato l’incontro con il Ministro che oggi dice di non ricordare se tra le tante mani strette in quel giorno ci fosse anche quella del giudice simbolo della lotta a Cosa Nostra con il volto segnato dal brutale assassinio del suo amico e collega più intimo avvenuto poco più di un mese prima.
Delitti, terribili, di cui è intriso il nostro Stato e tutti connessi l’uno all’altro.
Allo stesso modo infatti non è stata affatto accertata la ragione dell’omicidio di Luigi Ilardo, il confidente del colonnello Riccio, freddato a Catania il 10 maggio 1996, ad una settimana esatta dalla sua formale richiesta di divenire un collaboratore di giustizia a tutti gli effetti.
Era stato lui infatti, con un’operazione rischiosissima di infiltrazione nelle famiglie del nisseno, tornando dopo anni di reclusione ad occupare il suo ruolo di vertice nella provincia di Caltanissetta, a portare il colonnello Riccio e gli uomini del Ros ad un passo dalla cattura di Provenzano a Mezzoiuso che per l’appunto non avvenne.
Sentita nell’ambito del medesimo procedimento, nell’udienza del 17 aprile scorso, il procuratore aggiunto Teresa Principato, che partecipò a quella riunione in cui Ilardo si presentava per la prima volta davanti ai magistrati, ha riferito di essere rimasta estremamente turbata dalla scelta dei procuratori capo di allora: Caselli per Palermo e Tinebra per Caltanissetta di non verbalizzare il contenuto dell’incontro con il confidente.
“Fu una decisione presa alla fine, io ero contraria a quel metodo ma mi fidavo dei due magistrati, considerata la loro caratura”.
Secondo la dottoressa Principato Ilardo doveva sistemare delle questioni personali e soprattutto voleva provare ad ottenere un ulteriore appuntamento con Provenzano. Il colonnello Riccio assicurò loro che si sarebbe occupato personalmente della protezione di Ilardo ma nello stesso giorno in cui questi ripartì per far rientro a Genova Ilardo fu assassinato.Da chi? E perché?
Il magistrato non ha fatto mistero dell’ormai diffusa consapevolezza che le istituzioni non diano quella garanzia di riservatezza che sarebbe d’obbligo, “le notizie volano da qualsiasi fonte”, ha specificato senza tanti giri di parole.
Brusca e Vara forniscono invece il quadro generale in cui potrebbe essere maturato il delitto.
Ciro Vara, uomo di spicco della famiglia di Vallelunga, racconta che in quegli anni vi erano rivalità molto accese all’interno dei diversi schieramenti interni a Cosa Nostra che si ripercuotevano anche negli equilibri locali.
In particolare Gino Ilardo era in aperto contrasto con Peppe Cammarata e quindi quando apprese dell’uccisione del primo ne ricondusse il movente alla violenta dialettica interna alle famiglie nissene.
Fu solo più tardi che comprese perché Pietro Balsamo, della famiglia di Catania, con lui detenuto nel carcere di Enna, apprese la notizia dell’omicidio con particolare soddisfazione e gli disse di prepararsi che sarebbe scoppiata una bomba.
“La bomba – ha spiegato il pentito – era il fatto che Gino Ilardo collaborava con i carabinieri, ma lo compresi solo dopo”.
Balsamo secondo Vara era sempre al corrente di quanto si muoveva negli ambienti giudiziari, “evidentemente – ha precisato – aveva qualcuno che lo informava”.
Brusca invece ha introdotto un interessante retroscena.
Già verso la fine del 1995 aveva ricevuto richiesta da Aurelio Quattroluni, della famiglia di Catania, di uccidere Luigi Ilardo. Una richiesta stranissima perché in quegli anni Brusca e Bagarella erano sostanzialmente su una posizione contraria a Provenzano, e Ilardo, nipote di Piddu Madonia, apparteneva invece proprio allo schieramento del vecchio padrino.
Brusca, insospettito di essere stato incaricato di quel delitto, ancor più perché il mandante risultava essere proprio Piddu Madonia, ne chiese conto a Provenzano il quale, “come suo solito”, disse di non saperne nulla e di attendere nuove disposizioni. Che arrivarono però troppo tardi. Ilardo infatti fu assassinato e la settimana successiva Brusca fu arrestato.
A mistero si aggiunge mistero.
Nonostante l’omicidio di Ilardo e nonostante questi avesse portato i carabinieri nella zona in cui Provenzano si nascondeva il padrino e i suoi protettori non cambiarono ne abitudini ne nascondigli. Rimasero a Mezzoiuso e dintorni fino all’arresto di Benedetto Spera nel 2001.
Nessuno andò a disturbarli.
Oggi, 23 maggio 2009, nel ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro noi italiani tutti abbiamo il dovere di ricordare sempre che abbiamo un debito nei confronti di questi servitori dello Stato: cercare e accertare la verità.

Milano è la capitale della ‘ndrangheta”

A differenza di altre organizzazioni mafiose (Cosa Nostra,
ad esempio, è sicuramente Palermo-centrica), la ‘ndrangheta è policentrica,
nel senso che non ha una sola capitale, ma una serie di capitali, in Italia e
all’estero, collocate laddove la sua presenza assume aspetti più estesi per numero
di affiliati, per numero di cosche operanti, per rilevanza degli interessi economici
in esse presenti. E’ il caso di Milano, capitale della Lombardia, regione
che, tradizionalmente, ha visto la presenza della ‘ndrangheta in misura ampia e
pervasiva, seconda solo al territorio calabrese. E non è una presenza che risale
a questi anni. Si dimentica che negli anni ’70 e ’80, la Lombardia è stata al centro
dei sequestri di persona, cioè dell’attività criminale più odiosa e feroce messa
in atto della ‘ndrangheta, al fine di realizzare quella accumulazione di capitale
che le avrebbe consentito di entrare, negli anni ’90, da protagonista nel mercato
internazionale della droga. L’elevatissimo numero dei sequestri consumati
dalla ‘ndrangheta in Lombardia è la dimostrazione di come la sua operatività su
quel territorio fosse elevatissima sin da allora, non potendosi compiere altrimenti
quel genere di reati senza una conoscenza approfondita del territorio, delle risorse
in esso presenti, delle occasioni di profitto offerte. L’affermazione dunque
che Milano sia la capitale della ‘ndrangheta, quanto meno sotto il profilo economico finanziario, non deve destare stupore, né dare scandalo, quasi che si
fosse con tale definizione, imbrattato un territorio immune da questo tipo di contaminazioni.
Non è così, come sa bene la DDA di Milano, che, nel corso di tutti
gli anni ’90, si è occupata quasi esclusivamente del fenomeno ‘ndrangheta in
Lombardia, grazie anche ad una lunga e qualificata serie di collaboratori, che
hanno consentito di disvelare i suoi organigrammi, gli insediamenti, le attività,
gli interessi, la rete di copertura anche istituzionale di cui essa godeva. Accanto
alle indagini giudiziarie, vi è poi l’attività, preziosa, delle Commissioni parlamentari
d’inchiesta, che hanno dedicato alle infiltrazioni delle mafie nel Nord
un’attenzione particolare, le cui relazioni andrebbero forse rilette per cogliere i
dati di una realtà criminale, a lungo sottovalutata.


Ancora, nella relazione per l’anno in corso sulla DDA di Milano, vengono segnalate
non solo le consuete attività di traffico internazionale di droga, con al centro
le altrettanto consuete cosche ioniche operative nel settore, ma anche fenomeni
di tipo diverso, come ad esempio, quelle di cui al proc. pen. n. 30500/04
R.G.N.R., della ordinanza di custodia cautelare in carcere del GIP di Milano per
il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., in data 10.07.2008. Nell’ordinanza di misura
cautelare, ai principali indagati appartenenti alla articolazione lombarda delle
famiglie BARBARO-PAPALIA di Platì (tra loro legate anche da vincoli parentali),
si addebita che, sotto l’egida di BARBARO Salvatore (genero del noto PAPALIA
Rocco, in atto detenuto), e strettamente collaborato da PAPALIA Pasquale (figlio
di PAPALIA Antonio, fratello di Rocco ed anch’egli detenuto), avrebbero
acquisito “il controllo della attività di movimento terra nell’ambito territoriale della
zona sud ovest dell’interland milanese”, in particolare “nel territorio del Comune
di Buccinasco”, imponendo “agli operatori economici la loro necessaria presenza
negli interventi immobiliari”. Il tutto attraverso intimidazioni consistite in “danneggiamenti
e incendi sui cantieri, esplosioni di colpi d’arma da fuoco contro
beni di altri imprenditori, incendi di vetture in uso a concorrenti o a pubblici amministratori,
minacce a mano armata, imposizione di un sovrapprezzo nei lavoratori
di scavo”. Una attività del genere lascia intendere, a coloro che conoscono
il tipico modo di procedere delle cosche calabresi, che è in atto una vera e
propria conquista del territorio, al fine di sfruttarne tutte le potenzialità economiche
(assai maggiori, si converrà, rispetto a quelle offerte nei territori di origine),
attraverso i tipici metodi di intimidazione, dissuasione violenta, nei confronti degli
operatori economici locali, che, è prevedibile, nel giro di alcuni anni, si vedranno
soppiantati ed estromessi, almeno per quanto attiene il settore
dell’edilizia pubblica e privata. La circostanza che l’area di Milano ospiterà
l’Expo 2015, con il giro di opere pubbliche e dei conseguenti interventi finanziari
ed investimenti immobiliari che ruotano intorno all’evento, dimostra a sufficienza
quali siano gli interessi in gioco, maggiori persino ipotizzabili dalla realizzazione
del ponte sullo Stretto di Messina, e quali gli appetiti mafiosi che si scateneranno,
con il corollario di violenza verso i concorrenti esterni, regolamenti interni, e
quant’altro accompagna di solito tali realizzazioni.
Gli esperti sanno bene che prospettive di tale portata comportano anche
un riassetto, un riposizionamento organizzativo delle cosche sul territorio, in
modo da adattare le strutture ai nuovi impegni imprenditoriali. Come ricorda la
relazione sulla DDA di Milano, una delle più significative indagini svolte dalla
DDA di Milano in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, quella recante
il n. 43733/06 R.G.N.R., “ha proprio per oggetto la individuazione e neutralizzazione di aggregazioni in territorio lombardo di formazioni di tipo ‘ndranghetistico,
costituenti veri e propri “locali” , la cui esistenza pone in serio pericolo
il tranquillo svolgersi della vita della collettività interessata da tali presenze,
che non sono puramente formali, ma incidono sostanzialmente sul tessuto sociale
anche attraverso la esecuzione di gravi azioni delittuose che quella collettività
turbano notevolmente. E grave sarebbe se in essa si determinasse una
sorta di assuefazione che sarebbe l’anticamera della predisposizione alla convivenza
col fenomeno mafioso, in termini di sua accettazione e, peggio ancora,
sfruttamento a scopi utilitaristici, come si è già notato in alcuni settori e puntualmente
segnalato con la precedente relazione.
L’aspetto di tale importantissima indagine che desta maggiore preoccupazione
è quello, illustrato nella citata relazione, secondo il quale “L’indagine in
questione, altresì, consente di confermare una realtà che da un po’ di tempo si
constata in territorio lombardo, e cioè quella del progressivo affrancamento delle
formazioni criminali mafiose di matrice calabrese dalla “madrepatria” calabra,
in termini di sostanziale autonomia delle associazioni per delinquere di tipo mafioso
che si sono costituite, o vanno costituendosi, resa anche evidente dal fatto
che le aggregazioni lombarde non ripetono la rigida ripartizione territoriale di
quelle calabresi.”…E ancora “In altri termini, il fenomeno che in passato si era
constatato, dell’occasionale coagularsi nel territorio in questione di gruppi di
‘ndrangheta di matrice diversa ed anche contrapposta in Calabria in alcuni momenti
storici, oggi appare “istituzionalizzarsi” in forma stabile ed organica, pur
permanendo sempre i rapporti con le zone d’origine, non in termini di dipendenza
funzionale, bensì di interscambio operativo all’occorrenza e di riconoscimento
da parte delle strutture lombarde della “primogenitura” di quelle calabresi”.
Par di capire, insomma, che si è alla vigilia di una vera e propria rivoluzione
copernicana. Non vi sono più tanti satelliti che ruotano ad un unico sole
(la ‘ndrangheta di San Luca), ma una struttura federata, disposta a dialogare
con la vecchia casa-madre, ma non più a dipendere da essa, sia quanto alla
nomina dei responsabili della periferia dell’impero, sia quanto all’adozione delle
nuove strategie e alla condivisione dei profitti. La ‘ndrangheta avrà, in tal modo,
completato il suo lungo percorso di occupazione della più ricca e produttiva regione
del paese. Non più un’occupazione precaria, ma definitiva, con strutture
permanenti di direzione, con il territorio rigidamente suddiviso. “In pratica- secondo
la relazione della DDA - corpi separati ma provenienti dal medesimo
ceppo, e viventi nell’ambito di quella che può definirsi una “coesistenza autonoma
ma interattiva”. Quando l’indagine sarà conclusa sarà possibile trarre ulteriori
elementi di conoscenza, ma se il quadro prospettato dai magistrati di
questo Ufficio dovesse essere confermato, non sarà difficile comprendere, a
chiunque, che nel giro di pochi anni, i rapporti di forza potrebbero rovesciarsi e,
davvero, i centri decisionali potrebbero spostarsi dalla Calabria alla Lombardia.
Non è un caso, se esponenti della ‘ndrangheta calabrese, quali SERGI Paolo e
PIROMALLI Antonio, siano stati catturati proprio a Milano, da dove dirigevano il
primo traffici di droga transnazionali, il secondo lucrosi affari e collegamenti con
esponenti della politica e delle istituzioni.
Non dissimile appare la situazione nel territorio di Brescia, stando alla relazione
sulla DDA di quel distretto, stante la segnalata presenza di organizzazioni
facenti capo a ‘ndrangheta e camorra nell’area del basso lago di Garda
che “condizionava e condiziona tuttora il tessuto sociale e le iniziative di intrapresa finanziaria”. D’altra parte – prosegue la relazione – “è ben nota la massiccia
presenza, da decenni, della ‘ndrangheta calabrese, nell’area lombarda.
L’intensa operatività e pericolosità di sodalizi di matrice ‘ndranghetista si è delineata
concretamente a più riprese sul territorio bresciano, alla luce delle tante
investigazioni sviluppate e condotte a termine”. Tra le cosche di cui viene segnalata
la presenza vi sono quelle BELLOCCO, nell’ambito dell’operazione
Narcos, quelle originarie di Fabrizia di cui all’operazione Cometa, oltre ai risultati
dell’operazione Esodo. Degna di segnalazione è la sinergia che si sarebbe
realizzata tra ‘ndrangheta e mafie estere, e alla luce di una indagine dalla quale
“è emerso l’interesse di facoltosi soggetti russi, che intendono “investire” in Italia
- sia tramite l’acquisto di beni immobili sia tramite l’acquisizione di complessi aziendali
- capitali plurimilionari, che sono risultati pervenire da società off shore,
operanti in paesi noti come paradisi fiscali. Nell’ambito di tale procedimento è
altresì emersa l’esistenza di contatti fra gli investitori esteri e soggetti di origine
calabrese, in parte già oggetto d’indagine della DDA bresciana ed in parte di interesse
investigativo per la DDA di Reggio Calabria, con la quale è stata avviata
collaborazione investigativa al riguardo: in particolare, i calabresi appaiono
svolgere il ruolo di “procacciatori di affari” per i soggetti stranieri ed in siffatto
contesto si è rilevato l’interessamento per l’acquisizione di una raffineria”.
La ‘ndrangheta è presente anche in Piemonte, tradizionale territorio di insediamento
di numerose cosche calabresi, e talmente aggressive da potere ideare
e realizzare, in passato, l’omicidio del Procuratore della Repubblica di Torino,
Bruno Caccia. Fatta eccezione per la mafia catanese, è la ‘ndrangheta la
protagonista della scena criminale piemontese, tanto sul versante del traffico di
droga, quanto su quello più propriamente definibile di controllo del territorio,
quest’ultimo in fase di sicuro rafforzamento. Secondo la relazione sulla DDA di
Torino la ‘ndrangheta calabrese, che in Piemonte ha una sua tradizionale e
consolidata roccaforte, seconda, fuori dalla Calabria, solo a quella realizzata in
Lombardia. “Essa è presente in tutto il Piemonte, è dedita ancora al traffico di
sostanze stupefacenti, sia pure limitato alla fase organizzativa, i contrasti interni
sono ridotti e solo raramente risolti con la violenza, le estorsioni sono realizzate
attraverso il condizionamento e l’intimidazione ambientale, più che con
l’esercizio di pratiche di violenza esplicita, mentre la ripartizione delle zone e dei
settori di influenza tra cosche è regolata da rigorosi criteri di suddivisione territoriale.
Le attività di interesse continuano ad essere quelle del traffico di droga,
anche se l’uccisione di MARANDO Pasquale, l’arresto del fratello Domenico, e
la sostanziale perdita di influenza della famiglia omonima, ha sicuramente determinato
l’ascesa di nuovi gruppi dirigenti in tale genere di attività. Permangono
le attività di controllo del territorio nella sua accezione più vasta, che va dalle
estorsioni, al controllo, se non totale, di appalti e subappalti di lavori pubblici e
privati, al riciclaggio, alle attività illegali secondarie, quali il controllo delle bische
clandestine. Anche la ‘ndrangheta, seguendo in qualche modo un processo che
interessa l’intero territorio nazionale, ha in corso, in Piemonte, un processo di
trasformazione, di riorganizzazione, di redistribuzione di incarichi e ruoli
all’interno dei “locali”. Tale processo può trovare spiegazione nella circostanza
che si stanno allentando, per varie ragioni che non è qui il caso di analizzare, i
legami con i territori di origine, essendo maturate, nel corso degli anni, nuove esperienze, nuove esigenze, nuove forme di presenza, non necessariamente
legate ai vecchi moduli del passato.
Occorre ancora tenere presente che negli ultimi due anni sono avvenute le
scarcerazioni per espiazione pena di alcuni elementi di vertice della ‘ndrangheta
calabrese, che, o hanno ripreso il loro ruolo di direzione, ovvero stanno tentando
di farlo, riannodando vecchie alleanze e reinserendosi in alcune delle attività
più lucrose”.Consigliere Vincenzo Macrì
Dalla relazione annuale della Direzione nazionale antimafia
1° luglio 2007 – 30 giugno 2008Scarica qui la relazione integrale

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