mercoledì 7 ottobre 2009

La verità di Michele Sindona

Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo l'introduzione di Gianni Barbacetto a "Il mistero Sindona" di Nick Tosches, appena pubblicato da Alet Edizioni.

di Gianni Barbacetto

“Uno dei più geniali uomini d’affari del mondo” (Fortune), “personaggio leggendario dell’alta finanza” (Forbes), “il salvatore della lira” (Giulio Andreotti), “il più geniale finanziere italiano del dopoguerra” (Business Week). Questo era Michele Sindona nei primi anni Settanta. Controllava la Banca Privata Italiana di Milano, la Franklin National Bank di New York, la Banque de Financement di Ginevra. Suoi erano il Watergate di Washington e gli studios Paramount di Hollywood. Fredda finanza e fabbrica dell’immaginario.

L’incanto di un’incredibile storia di successo internazionale comincia a incrinarsi nel 1974, quando la Franklin viene risucchiata nel gorgo del crac, il più grave crollo finanziario avvenuto fino ad allora negli Stati Uniti. In Italia, collassa la Banca Privata. Nel 1975 la magistratura italiana emette contro di lui due mandati di cattura per bancarotta fraudolenta. Inizia così una nuova fase della vita di Sindona, intensa e frenetica, in cui il banchiere di successo, uomo con saldi rapporti nella dc, in Vaticano, nell’amministrazione Usa, gioca tutte le sue carte per convincere giudici e opinione pubblica di essere vittima di potenti avversari nel mondo della finanza e di pericolosi nemici nel campo della politica. Che avevano un obiettivo: eliminare a ogni costo un temibile concorrente, l’alfiere della “finanza cattolica”, un fiero combattente anticomunista.

La difesa non gli riesce. I giudici americani lo mettono sotto processo per appropriazione indebita, truffa, falsa testimonianza e una lunga fila di altri reati e, nel 1980, lo condannano a 25 anni di reclusione. Quattro anni dopo, ottenuta l’estradizione in Italia, i giudici italiani lo processano per bancarotta fraudolenta e nel 1985 lo condannano a 12 anni (già si vede quanto la giustizia Usa sia più severa di quella italiana quando giudica i colletti bianchi). Nuovo processo nel 1986, questa volta per omicidio: il banchiere è accusato di aver assoldato il killer che ha ucciso, nell’estate del 1979, il commissario liquidatore delle sue banche italiane, Giorgio Ambrosoli, che si era opposto al salvataggio. Quarantotto ore dopo la condanna all’ergastolo, il 20 marzo 1986 Sindona trangugia, nella sua cella del carcere di Voghera, un caffè al cianuro che lo uccide.

Quelle qui raccolte sono le sue memorie, affidate al giornalista americano Nick Tosches. La doppia vita di Michele Sindona, banchiere di successo e burattinaio di massoni, mafiosi e killer, inizia nel 1920 in Sicilia. Nasce a Patti da una famiglia modesta. Per mantenersi gli studi lavora fin dall’età di 14 anni. Fa il dattilografo, l’aiuto contabile, infine l’im piegato presso l’ufficio imposte di Messina. Lì ha modo di conoscere a fondo il sistema fiscale italiano. All’Università di Messina, nel 1942, si laurea in Giurisprudenza con una tesi sul Principe di Niccolò Machiavelli, la cui massima, “Il fine giustifica i mezzi”, diventa la sua stella polare.

Si trasferisce a Milano nel 1946, senza una lira, ospite di un cugino, lasciando a Messina moglie e figlia. Apre uno studio di consulenza tributaria. All’inizio paga l’affitto del suo ufficio “in natura”, offrendo in cambio al proprietario la sua consulenza. Ma diventa rapidamente il fiscalista più ricercato della città, grazie alla sua specializzazione in elusione fiscale, e anche qualcosa di più: Sindona diventa, per la ricca borghesia milanese in espansione, il mago delle tasse, l’esperto di conti cifrati in Svizzera, il profeta degli allora pressoché sconosciuti paradisi fiscali. Precorre i tempi aprendo per sé, già nel 1950, una società in Liechtenstein: la Fasco A.G., che diverrà il centro segreto del suo impero finanziario.

Nel corso degli anni Cinquanta, la fama dell’avvocato di Patti che si è installato a Milano diventa nazionale. Lo Studio Sindona di via Turati diventa il più importante d’Italia. Negli anni, centinaia di clienti di alto livello gli affidano i loro capitali da nascondere all’estero. E questo gli porta non soltanto ricchezza, ma anche potere, perché è lui ad avere in mano l’elenco, riservatissimo, dei loro nomi, allineati in quella che è stata chiamata la “lista dei 500”, fonte di mille indiscrezioni e mille ricatti.

Il fiscalista di successo, intanto, è diventato banchiere. Nell’autunno del 1960, la Fasco ha acquistato la quota di controllo della Banca Privata Finanziaria, un piccolo istituto posseduto dallo ior, la banca del Vaticano. Da quel momento Sindona si lancia nei grandi giri della finanza internazionale, all’ombra di poteri obliqui, alleati discutibili, amicizie pericolose.
Il Vaticano diventa il suo primo formidabile alleato, in un misto di ingenuità e spregiudicatezza. Monsignori di curia provinciali e pasticcioni, incapaci di far quadrare bilanci e Vangelo, si affidano con sollievo a questo finanziere riservato che si proclama fedele amico della Chiesa e della dc e acerrimo nemico dei comunisti. Ior e Sindona diventano soci nella Banca Privata Finanziaria e poi, nel 1968, nella Banca Unione, i due istituti di credito che formeranno la sindoniana Banca Privata Italiana. Quando Paolo vi, nel 1969, decide di spostare sul mercato internazionale gli ingenti investimenti del Vaticano e di vendere una parte del patrimonio immobiliare (anche per attutire le polemiche sulla ricchezza della Chiesa e sugli scempi urbanistici romani), è Sindona a comprare la Generale Immobiliare, a rilevare la Condotte, ad acquistare la Ceramiche Pozzi. «Lei è stato inviato da Dio per aiutare la nostra Chiesa» commenterà il cardinale Giuseppe Caprio.

Al vertice dello ior era intanto arrivato un vescovo di Cicero, Illinois, di nome Paul Marcinkus, la cui spregiudicatezza e ambizione di diventare un vero banchiere internazionale erano di certo superiori alle capacità. Sarà così facile per Sindona prima, per Roberto Calvi poi, diventare i prestigiatori di un sistema in cui – garante il buon nome del Vaticano – i denari si moltiplicano virtualmente, si disperdono ai quattro angoli del mondo, si bruciano in operazioni a rischio, fino al crac.
Sindona costruisce rapidamente il suo potere all’ombra di quel sistema che sarà chiamato, molti anni dopo, Tangentopoli. È un grande erogatore di mazzette e un generoso finanziatore della Democrazia Cristiana. Versa – secondo quanto racconta il suo ex braccio destro, Carlo Bordoni – centinaia di milioni di lire con cadenza regolare nelle casse della dc; nel 1974 vi fa affluire in un colpo solo due miliardi, attraverso tre misteriosi libretti al portatore intestati “Primavera”, “Rumenia” e “Lavaredo”, attribuiti rispettivamente a Giulio Andreotti, Amintore Fanfani e Flaminio Piccoli.

Ma gli affari di Sindona escono dai confini italiani. Ha buoni amici anche all’estero. John McCaffery, per esempio, uomo dei Servizi segreti inglesi durante la Liberazione. O David Kennedy, segretario al Tesoro dell’amministrazione Nixon. O ancora Daniel Anthony Porco, uomo d’affari statunitense. McCaffery diventa nel dopoguerra il rappresentante in Italia della Hambros Bank di Londra, che acquisterà una quota della banca di Sindona. Kennedy e Porco coinvolgeranno negli affari sindoniani la Continental Illinois National Bank.

L’ambiente in cui Sindona si muove è quello in cui gli affari si incrociano spregiudicatamente con la politica, nel nome della crociata anticomunista in corso nel dopoguerra. Le coordinate della sua attività finanziaria sono le stesse della guerra segreta contro il comunismo, da combattere con ogni mezzo. Per questo Sindona è circondato da massoni, uomini dei Servizi segreti, alti prelati vaticani, politici spregiudicati, faccendieri anticomunisti, ma fiosi di alto rango. Affari e politica, in questo clima di guerra fredda, sono tutt’uno. In nome del libero mercato e della democrazia, tra le due sponde dell’oceano Atlantico si crea uno spazio in cui il mercato non conta e la democrazia è sospesa, pesano le relazioni e il potere, le regole non esistono, i controlli sono aggirabili e la finanza e il denaro diventano un gioco di prestigio sganciato dalla realtà economica.

Sindona dà il primo robusto segnale del suo anticomunismo militante già nel 1956, quando offre ospitalità in una sua tenuta canadese a una cinquantina di profughi fuggiti dall’Ungheria invasa dai sovietici. Nei primi anni Sessanta entra poi a far parte di un gruppo di pressione italoamericano che cerca di impedire che il presidente John Kennedy conceda il via libera degli Usa al centrosinistra in Italia. Nel 1963, con l’ingresso dei socialisti nel governo, questa battaglia è persa, ma la guerra continua in altre, più drammatiche forme. Sindona in America entra in contatto con un avvocato che farà strada, Richard Nixon, che condivideva la sua ossessione anticomunista. «Mi riferì – racconta il banchiere, – che politici e uomini d’affari che avevano analizzato la situazione italiana si erano detti convinti che gli Stati Uniti avrebbero dovuto impedire che la regione mediterranea cadesse in mani nemiche.» Nixon resta coerente con questi propositi quando, nel 1968, viene eletto presidente degli Stati Uniti. Sarà rieletto nel 1972, anche con il contributo di Sindona, che lo sostiene versandogli un milione di dollari.

Intanto il banchiere è entrato a far parte dei circoli atlantici più oltranzisti, quelli che a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta nutrono in Italia il cosiddetto “partito del golpe”. Secondo le confessioni di un protagonista della strategia della tensione, Roberto Cavallaro, Sindona è, insieme all’industriale genovese Andrea Piaggio, il principale finanziatore dei gruppi “patriottici” (in realtà neofascisti) che forniscono la manodopera per la strategia dei disordini, delle bombe e delle stragi da attribuire ai “rossi” per attivare la risposta golpista dei militari. Sindona viene coinvolto, insieme al gotha della politica, dell’esercito e dei Servizi segreti, nelle indagini per il tentato golpe Borghese (8 dicembre 1970). Un altro protagonista di quella stagione, il maggiore Amos Spiazzi, farà il nome di Sindona a proposito del successivo piano golpista della Rosa dei venti («La pista genovese portava molto in alto, portava fino a Sindona»). Del resto, il banchiere si dà da fare anche all’estero, realizzando in Grecia manovre finanziarie che servono ad alimentare la giunta militare dei Colonnelli.

Nel 1973, anno chiave della strategia della tensione, Sindona – secondo quanto racconta egli stesso – viene incaricato dalla Cia di organizzare un’operazione finanziaria internazionale contro la lira, per rafforzare il clima di insicurezza in Italia e preparare sbocchi politici autoritari. “La speculazione contro la lira e altre valute da parte delle banche di Sindona, orchestrata dal braccio destro del finanziere, Carlo Bordoni, effettivamente ci fu. E si tradusse per le banche controllate da Sindona in una perdita di 800 milioni di dollari, che non risulta sia stata rimborsata dalla cia” (Il Mondo, 3 aprile 1981). Altro che “salvatore della lira”.

Nell’estate del 1974, la svolta. Negli Stati Uniti lo scandalo Watergate fa cadere l’amministrazione Nixon e Henry Kissinger deve abbandonare le poltrone di Segretario di Stato e di direttore del National Security Council. La politica estera statunitense cambia radicalmente e in Occidente si apre una fase nuova, il cui esito più vistoso è lo sgretolarsi dei regimi fascisti in Grecia e in Portogallo. Cambia il clima politico anche in Italia. Da una parte si apre (ma solo per un momento) qualche spiraglio sulle manovre eversive della strategia della tensione, grazie alle inchieste giudiziarie e giornalistiche sulla strage di piazza Fontana, sul golpe Borghese, sul “golpe bianco” di Edgardo Sogno, sul progetto eversivo della Rosa dei venti. Dall’altra, cambia strategia anche quel composito “partito del golpe” che era stato il protagonista della fase 1969-1974: abbandonate le bombe e il sostegno all’eversione fino alla progettazione del colpo di stato, il fronte dell’oltranzismo atlantico italiano si riorganizza attorno a un progetto più sofisticato di conquista dello Stato attraverso il controllo dei suoi apparati e di settori cruciali della politica, dell’economia, dell’informazione. È quanto viene teorizzato nel Piano di rinascita democratica, documento programmatico della loggia massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli.

I protagonisti della dura stagione di lotta anticomunista che si era aperta sul finire degli anni Sessanta, a metà dei Settanta passano dal “partito del golpe” alla P2, che si struttura come il club dell’oltranzismo atlantico. Tra loro, c’è anche Michele Sindona, che già era affiliato a una loggia coperta, la Giustizia e Libertà della Comunione di Piazza del Gesù. Nel 1973 il banchiere incontra Gelli ed entra nella sua loggia segreta. In buona compagnia: nella P2 si ritrovano i vertici dei Servizi segreti italiani, alti ufficiali dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti (dc, psi, psdi, pli, msi), alti magistrati (tra cui il procuratore generale della Repubblica di Roma, Carmelo Spagnuolo, in buoni rapporti con Sindona), e poi giornalisti, finanzieri (tra cui Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, che fu dapprima l’alunno prediletto di Sindona e poi suo concorrente, avversario e continuatore), imprenditori (tra cui il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi). Sindona ha la tessera P2 numero 1612, gruppo Centrale, cioè in diretto collegamento con Licio Gelli.

In questo clima, in cui la finanza è un sistema di relazioni strettamente connesso alla politica, Sindona costruisce la sua resistibile ascesa. Usa lo ior come banca off-shore attraverso cui “mettere al sicuro”, all’estero, i capitali dei suoi clienti italiani. L’istituto vaticano guadagnerà ottime commissioni da queste operazioni e da altri affari fatti con Sindona, ma alla fine, con il crac, dovrà subire perdite che vanno dai 60 miliardi di lire delle ammissioni ufficiali agli oltre 200 ipotizzati da stime attendibili.

Banchiere ormai affermato, tenta il colpo della sua vita. Il Grande Disegno prende forma nel 1971: Sindona lancia l’assalto alla cosiddetta finanza laica, che ha in Mediobanca il suo punto d’equilibrio e in Enrico Cuccia il suo gran sacerdote, garante del capitalismo italiano delle grandi famiglie. Parte alla conquista della Bastogi, allora salotto buono della finanza italiana, che custodiva pacchetti azionari del gruppo Pesenti, del gruppo Pirelli, della Centrale, della Snia. Progetta di fonderla con la Centrale, dopo averla espugnata, facendo nascere una società finanziaria che sarebbe stata tra le più grandi d’Europa. Apre le trattative per acquisire la Banca Nazionale dell’Agricoltura, allora la più vivace delle banche private italiane. Scala l’Italcementi di Carlo Pesenti, che controllava l’industria del cemento, alcune banche, il colosso assicurativo Ras, oltre al pacchetto di maggioranza della Bastogi e una partecipazione determinante per il controllo della Montedison.

Il Grande Disegno punta a creare un polo finanziario alternativo a Mediobanca e a raccordare diversi centri di potere: la finanza vaticana di Paul Marcinkus, l’Opus Dei, gli andreottiani che controllavano il Banco di Roma e sognavano di togliere il primato a Milano. Se il Grande Disegno fosse riuscito, la storia d’Italia sarebbe stata diversa e il banchiere, con i suoi alleati andreottiani, vaticani, massoni e mafiosi, avrebbe occupato nella finanza italiana il posto che è stato di Cuccia. Invece l’opa Bastogi – la prima offerta pubblica d’acquisto realizzata in Italia – fallisce. L’establishment economico, di cui Cuccia è il punto di riferimento, resiste. Respinge gli assalti.

Sindona si concentra allora sulle sue banche, l’Unione e la Privata Finanziaria, riunite nella Banca Privata Italiana, e acquista negli Stati Uniti la Franklin National Bank. Gli affari però vanno male. Le banche ottengono pessimi risultati. Una sua società, la Moneyrex, si dissangua compiendo spericolate operazioni speculative nell’area dei cambi dopo aver scommesso sulla tenuta del dollaro, che invece precipita. Sindona non si perde d’animo. Convinto com’è che nella finanza il mercato sia niente e il potere, i rapporti, la politica siano tutto, estrae dal cilindro la mossa che lo può salvare: un aumento di capitale da brivido (da un milione a 160 miliardi di lire) di una società fino ad allora sconosciuta, la Finambro, destinata a diventare, con un colpo di bacchetta magica, la holding del suo gruppo.

Ma il mercato esiste. E anche i poteri reagiscono – e non solo quelli che sostengono Sindona. Nel giugno 1973, infatti, cade il governo Andreotti, sostituito dal centrosinistra guidato da Mariano Rumor. Al Ministero del tesoro arriva Ugo La Malfa, che avvia immediatamente una stretta creditizia e una politica economica più rigorosa. Sull’aumento di capitale Finambro, il 28 agosto 1973 scrive: “Mezza Italia si sta muovendo per questa operazione, il che mi rende ancora più diffidente”. Tutti gli aumenti di capitale sono bloccati e Sindona resta in una situazione finanziaria insostenibile. Per di più, in America cade Nixon, a causa dello scandalo del Watergate che – per uno scherzo del destino – prende il nome dall’edificio di Washington posseduto da Sindona. Caduti i suoi protettori americani e indeboliti quelli italiani, Sindona non può più nascondere i suoi conti. È il crac.

Eppure i suoi sostenitori sono ancora forti. Andreotti lo difende, la P2 si scatena, gli ambienti massonici americani lo spalleggiano, la mafia lo sostiene. L’obiettivo che persegue è semplice: realizzare un piano di salvataggio che scarichi i costi del crac (almeno 250 miliardi di lire dell’epoca) sulle spalle dei contribuenti. Chi non ci sta è un giovane avvocato milanese, nient’affatto sovversivo, monarchico anzi: Giorgio Ambrosoli. È a lui che la banca di Sindona viene affidata, quando nell’ottobre 1974 il giudice istruttore Ovilio Urbisci la pone in liquidazione coatta ed emette un ordine d’arresto per Sindona, accusato di “falsità in scritture contabili, false comunicazioni e illegale ripartizione degli utili”. Il commissario liquidatore, assistito dal maresciallo della Guardia di Finanza Silvio Novembre, svolge il suo compito con la schiena diritta. Alla fine del 1975 arriva al cuore del sistema, alla Fasco, in Liechtenstein, che Sindona sperava restasse fuori dal crac, e riesce a entrare in possesso delle quattromila azioni al portatore che costituiscono il capitale sociale.

Intanto Sindona è fuggito a New York, da dove gioca tutte le carte per salvarsi. Per far passare i piani di salvataggio e addossare alla collettività le perdite, si danno da fare gli uomini più vicini ad Andreotti: il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Franco Evangelisti, il ministro dei Lavori pubblici Gaetano Stammati, i consiglieri del Banco di Roma Roberto Memmo e Fortunato Federici. Si muovono anche Licio Gelli, Massimo De Carolis e, senza troppa convinzione, Roberto Calvi, che in realtà aspira a prendere il posto di Sindona.

Per evitare l’estradizione in Italia, Sindona nel 1976 presenta al tribunale di Manhattan una decina di affidavit, cioè dichiarazioni giurate, che sostengono la tesi della persecuzione politica in Italia nei confronti dell’intrepido banchiere anticomunista. A firmare gli affidavit sono Anna Bonomi Bolchini, la signora della finanza italiana; l’alto ma gistrato romano Carmelo Spagnuolo; Edgardo Sogno, ex ambasciatore e regista del “golpe bianco”; John McCaffery, l’amico americano; Philip Guarino, esponente di rilievo dei gruppi massonici italoamericani; e Licio Gelli, Venerabile Maestro della P2 e regista di mille intrighi e di mille affari.

Di fronte a un così potente e variegato schieramento che sostiene Sindona, pochi sono gli uomini che contrastano i suoi giochi. A Roma, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Sarcinelli, rispettivamente governatore, direttore generale e dirigente della vigilanza della Banca d’Italia. E, a Milano, Giorgio Ambrosoli. Sono granelli di sabbia in una macchina potente, che ha a disposizione anche pezzi del sistema politico (gli andreottiani) e della magistratura (nel “porto delle nebbie” del palazzo di giustizia romano). Eppure, questa volta, i granelli di sabbia fanno inceppare la macchina. Alcuni la pagheranno cara: Sarcinelli sarà in seguito arrestato, con accuse pretestuose, dalla magistratura andreottiana romana; a Baffi sarà risparmiato il carcere soltanto in virtù dell’età avanzata; Ambrosoli pagherà il prezzo più alto: sarà ucciso.

Sì, perché le manovre per salvare Sindona procedono su due piani paralleli. Uno è visibile, quello delle defatiganti trattative politiche e delle puntigliose iniziative finanziarie. Il secondo è sotterraneo: quello delle minacce, delle intimidazioni, delle telefonate anonime, degli avvertimenti mafiosi. Nel maggio 1977 iniziano le pressioni su Cuccia. Un avvocato romano, Italo Castaldi, lo va a trovare e gli accenna che qualcuno starebbe progettando il rapimento dei suoi figli. Cuccia capisce l’antifona e apre una trattativa segreta con l’entourage di Sindona. Incontra Pier Sandro Magnoni, il genero del bancarottiere, all’Hotel Claridge di Londra il 7 luglio 1977 e poi tante altre volte ancora a Zurigo. Ha decine di colloqui con l’avvocato di Sindona, Rodolfo Guzzi.

Agli incontri tra uomini d’affari correttamente vestiti di grigio fanno da contrappunto decine di telefonate anonime e minacce di morte, in italiano o in inglese con accento italoamericano, al numero privato di Cuccia, 02.700606. «Dica a suo marito di non fare lo stronzo oggi alla riunione delle 16 – grida una voce al telefono alla moglie di Cuccia, la mattina del 12 ottobre 1978, – perché ha rotto le palle a tutti e ci penseremo noi.» Il 17 novembre un attentato incendiario distrugge il portone di casa, in via Maggiolini 2. Cuccia sa bene da dove vengono le minacce: Magnoni in persona gli aveva fatto oscuri accenni ai pericoli che i suoi figli stavano correndo. Eppure non dice nulla ai giudici. Sceglie di giocare una partita rischiosa, da solo.

Dopo due anni di telefonate anonime, pressioni, minacce, accetta d’incontrare di persona il suo nemico. Il 10 aprile 1979, in gran segreto, vola a New York. Sono le 17.30 quando al Regency Hotel, dov’è fissato l’appuntamento, arriva Michele Sindona, che viveva in una suite del Pierre con le finestre su Central Park. Il bancarottiere è accompagnato dal cognato Magnoni e dall’avvocato Guzzi. L’incontro dura circa due ore. Sindona protesta nervosamente contro quello che definisce “il complotto” ordito contro di lui, che gli impedisce di sistemare i conti delle sue banche italiane. E rinfaccia a Cuccia di essere il regista del complotto. Cuccia risponde soltanto che Sindona dà peso a «pettegolezzi di nessun valore».

A conclusione dell’incontro, Sindona dice: «Noi abbiamo due cose in comune: un disprezzo personale del pericolo, come dimostra la sua decisione di accettare questo viaggio a New York, e un vivo amore per la famiglia». Cuccia non mostra, come al solito, alcuna emozione. Domanda soltanto: «Devo mettere in relazione la dichiarazione riguardante il mio affetto per la famiglia, con un riprovevole messaggio che ho ricevuto dal Magnoni?». Sindona risponde di no. Poi gli chiede di vederlo a quattr’occhi, il giorno dopo, 11 aprile.

Faccia a faccia, da soli: il più potente banchiere italiano, il grande vecchio silenzioso di Mediobanca, di fronte al bancarottiere Sindona, per l’Italia latitante e ricercato, che dall’America bersagliava di minacce mafiose Cuccia e Giorgio Ambrosoli. Di questo secondo incontro è rimasto solo un appunto scritto da Cuccia, piccola grafia su fogli bianchi quadrati, uno dei tanti “verbalini” su cui il banchiere riportava puntigliosamente ogni colloquio importante. “Il discorso a quattr’occhi fu allucinante – scrive Cuccia. – Sindona premette che mi deve fare un discorso molto duro e mi chiede di lasciarlo parlare senza interromperlo. Premette che ha un figlio che ogni notte si sveglia di soprassalto urlando che stanno uccidendo suo padre; un altro figlio ha deciso di fare politica con un orientamento che dovrebbe consentirgli iniziative a favore di suo padre; sua figlia è in uno stato di depressione nervosa gravissimo e si è ridotta a pesare quaranta chili. […] Quando avvenne il crac, i suoi due figli decisero di uccidermi. Egli riuscì a farli fermare a Ginevra dove erano arrivati, diretti in Italia, per eseguire la loro vendetta. Successivamente, egli si preoccupò di attuare una serie di prese di contatto con le comunità italiane negli Stati Uniti, facendosi accompagnare dai figli, in modo da esporre la verità sulle mie malefatte contro di lui; e a seguito di questa propaganda io fui dichiarato ‘miserabile’, termine applicato a coloro che la mafia condannava a morte. Nel frattempo la mafia aveva completato le informazioni sui miei figli; aveva fatto seguire in macchina una delle mie figliole; aveva accertato che mio figlio si era trasferito in Germania. Sindona aveva dichiarato che io potevo essere più utile da vivo che da morto, e aveva quindi fatto sospendere specifiche iniziative nei miei confronti. Invece, Sindona riteneva di doversi assumere la responsabilità morale di fare scomparire Ambrosoli, senza lasciare alcuna traccia.”

Il linguaggio di Sindona riportato da Cuccia è allusivo: “comunità italiane negli Stati Uniti”, “specifiche iniziative nei miei confronti”. Ma comunque chiaro: quelle espressioni stanno per “mafia” e per “condanna a morte”. L’appunto, e l’incontro, si concludono lasciando aperta la trattativa segreta tra un Sindona che minaccia e un Cuccia che non vuole salvarlo, ma sa che gli conviene fargli credere di avere ancora speranze.

Una partita, però, è già chiusa. E Cuccia la rileva con il volgare pudore di un “invece”. È la partita tra Sindona e Ambrosoli: “Invece, Sindona riteneva di doversi assumere la responsabilità morale di fare scomparire Ambrosoli, senza lasciare alcuna traccia”. Così Cuccia scrive nel suo verbalino.

Anche Ambrosoli, in quegli anni, è minacciato. Tra il 28 dicembre 1978 e il 12 gennaio 1979 riceve almeno sette telefonate anonime. L’ultima: «Non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e un bastardo!». Ambrosoli riferisce le minacce ai magistrati e il suo telefono è posto sotto controllo. Dopo il gennaio 1979 le minacce si fermano. Tanto che nell’aprile di quell’anno (quando Cuccia accetta l’incontro segreto a New York) Ambrosoli è un poco più tranquillo. Spera che il pericolo sia passato. Invece… Invece c’è un “invece” pronunciato da Sindona che riapre il pericolo. Cuccia sa che tipo di banchiere e d’uomo è Sindona. Facendo però onore alla sua fama di uomo silenzioso e riservatissimo, Cuccia non racconta a nessuno dell’incontro di New York, della strana trattativa in corso con Sindona, delle minacce mafiose sentite con le sue orecchie. Quell’“invece” riferito ad Ambrosoli lo tiene per sé. Come tiene per sé, chiusi in cassaforte, i suoi verbalini, compreso l’appunto dell’11 aprile. Subisce nuove pressioni. Il 5 ottobre 1979 va a fuoco la porta del suo appartamento, al secondo piano. Cuccia cambia casa. Ma tace.

Tace non soltanto con i magistrati, ma anche con Ambrosoli, il cui ufficio in via Verdi dista pochi passi dal portone di Mediobanca in via Filodrammatici. Lui che ha accettato tanti intermediari di Sindona, tace perfino con chi poteva far da tramite con Ambrosoli, l’avvocato Sinibaldo Tino, amico di Ambrosoli oltre che suo consulente, il cui studio era addirittura dentro il cortile di Mediobanca… I magistrati Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagheranno su Sindona e sull’omicidio Ambrosoli, riusciranno a far parlare Cuccia solo dopo molte insistenze e dopo aver aiutato la memoria e la volontà del banchiere facendolo accompagnare nell’ufficio di via Filodrammatici da un maresciallo, che finalmente torna a palazzo di giustizia con in mano i famosi “verbalini”: ma è ormai il settembre 1981, Ambrosoli è morto da ventisei mesi.
Sì. Perché Giorgio Ambrosoli – invece – muore nella notte dell’11 luglio 1979, esattamente tre mesi dopo l’incontro di New York tra Cuccia e Sindona. Viene raggiunto da tre proiettili calibro 357 magnum davanti a casa. Nessun politico ai suoi funerali, nella chiesa di San Vittore, nessuna autorità di governo, nessun uomo della comunità degli affari milanese. Presenti soltanto il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e molti magistrati. Solo Marco Vitale lo ricorderà, in un articolo commosso sul Giornale.

Il killer di Ambrosoli, William Joseph Aricò, detto Bill lo Sterminatore in ricordo di quando a New York faceva il venditore porta a porta di polvere di cianuro per sterminare gli scarafaggi, riceve da Sindona 50 mila dollari, più tanti altri soldi che, ricattando il suo mandante, riesce a far accreditare sui conti di una società che ha chiamato Ace Pizza Corporation. Il 2 dicembre, cinque mesi dopo il lavoretto, dona al nipotino che compie un anno una catenina d’oro, dicendo al figlio Charles, padre del bambino: «Questo è un regalo di Ambrosoli». Poi anche Aricò morirà.

È un anno terribile, il 1979. Il 29 gennaio viene ucciso a Milano il magistrato Emilio Alessandrini, che cade sotto i colpi dei terroristi di Prima Linea agli ordini di Sergio Segio, capitan Sirio. Il 20 marzo a Roma è assassinato Mino Pecorelli, il direttore di op. Il 21 luglio a Palermo tocca al vicequestore Boris Giuliano, seguito, il 25 settembre, dal giudice Cesare Terranova e dal maresciallo dei carabinieri Lenin Mancuso. Mafia, terrorismo, P2, i sistemi illegali vanno all’assalto delle istituzioni, qualche volta ognuno per suo conto, altre volte insieme.

Eppure. Eppure i segnali c’erano. Eppure qualche allarme era scattato. Già nel 1967 l’International Criminal Police di Washington aveva scritto alla Criminalpol di Roma per avere informazioni su quattro persone coinvolte, secondo gli americani, nel narcotraffico e nel riciclaggio tra Italia e Usa. Una di queste è “Michele Sindona, nato a Patti, Messina, l’8 maggio 1920, professione procuratore, residente a Milano in via Turati”. Un’altra è Daniel Anthony Porco, nato a Pitts­burgh, Usa. La Criminalpol trasmette la richiesta americana alla polizia di Milano. A firmare la risposta, all’inizio del 1968, è il questore di Milano: “Da accertamenti svolti è risultato che il Porco intrattiene a Milano stretti rapporti di amicizia e di affari con l’avvocato Michele Sindona. I loro rapporti di affari risalgono al 1964”. Nient’altro: “Allo stato degli accertamenti da noi svolti, non sono emersi elementi per poter affermare che […] il Porco e il Sindona siano implicati nel traffico di stupefacenti tra l’Italia e gli Usa”.

In realtà accertamenti seri non furono fatti, né prima né dopo la richiesta americana. La resistibile ascesa di Michele Sindona non fu contrastata. “Chissà se una maggiore attenziione, intelligenza, responsabilità, competenza usate allora – si domanda Corrado Stajano nel suo libro Un eroe borghese, – sarebbero riuscite […] a impedire che l’allora embrionale sistema dei poteri criminali riuscisse a saldarsi, una decina d’anni dopo, con settori del sistema politico e a condizionarli e a ispirarli provocando lutti e tragedie?”

La classe dirigente di una Milano ancora “capitale morale” d’Italia è distratta e già poco incline a interrogarsi sull’odore dei soldi che scorrono silenziosamente sotto i suoi occhi. La business community è efficiente ma sbadata. Sospettosa, invidiosa e maldicente nei confronti dei nuovi arrivati, degli outsider diversi dagli uomini con le radici saldamente piantate nel potere dell’industria e della finanza del Nord. Si chiamassero Michele Sindona o, più tardi, Salvatore Ligresti, oppure Silvio Berlusconi, i nuovi arrivati sono dapprima trattati con sufficienza. Ma basta poco a farli accettare: il potere, i soldi e gli intrecci con la politica vincono ogni resistenza. Così gli outsider conquistano Milano, sempre pronta a dimenticare – in nome del potere e dei danee – non solo lo stile, ma anche la decenza.

C’erano il Sessantotto, i fermenti sociali, le bombe nere, poi il terrorismo rosso. Chi ha occhi per la silenziosa penetrazione dei soldi sporchi nella finanza italiana? Chi ha voglia di vedere l’illegalità che si mangia la politica? Così nessuno ha niente da ridire neppure del curioso successo della sindoniana Interfinanziaria S.p.a., sede a Milano, ma – lo racconterà poi una relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia – venti sportelli nella depressa provincia di Agrigento che riescono a far affluire ben quattro miliardi e mezzo di lire nelle casse della società. Come? Promettendo un tasso d’interesse più che doppio di quello praticato dalle altre banche e scatenando una caccia ai depositi realizzata da promotori finanziari d’ec ce zione: i parenti dei mafiosi locali, assunti come ricercatori di clienti.

Senza conseguenze perfino il segnale lanciato dall’ambasciatore Roberto Gaja, che nel 1975 rifiuta di partecipare a New York a una manifestazione di italoamericani in onore di Sindona, spiegandone le ragioni in un rapporto di fuoco inviato al Ministero degli esteri a Roma. Resta inascoltato, come ricorda la sentenza di Palermo nel processo per mafia al più tenace dei suoi sostenitori politici, Giulio Andreotti, dove è scritto che “il collegamento di Sindona con la mafia italoamericana era ben presente anche all’ambasciatore italiano negli Stati Uniti”.

Senza risultato, nei primi anni Settanta, anche il durissimo rapporto della Banca d’Italia che conclude un’ispezione agli istituti di Sindona: “Irregolare, alterata o omessa registrazione di fatti di gestione; tenuta di una seconda contabilità economica riservata; riserva obbligatoria inferiore al dovuto” e “altre numerose irregolarità nel settore valutario”. Gli ispettori propongono già allora il commissariamento della Banca Unione e la liquidazione coatta della Banca Privata Finanziaria. Invece interviene la politica: Giulio Andreotti, in quel momento presidente del Consiglio, induce il governatore di Bankitalia Guido Carli a non intervenire; e resta ferma anche la magistratura (andreottiana) del Palazzaccio romano.

Sindona può continuare i suoi giochi di prestigio. Il preferito consiste nell’utilizzare i soldi dei clienti per finanziare le società del gruppo, per fare acquisizioni (come nel caso della Franklin Bank), o per altre operazioni illegali: i capitali sono parcheggiati in “depositi fiduciari” presso banche estere compiacenti e poi riversati in società estere controllate da Sindona.

In nome dell’anticomunismo tutto è possibile. Anche l’al leanza con Cosa nostra: proprio in questo libro Sindona dice a Nick Tosches che gli Alleati, al momento dello sbarco in Sicilia, si servirono di Lucky Luciano e della mafia “per procurarsi l’aiuto necessario a sconfiggere il nemico comune”. “Il fine giustificava i mezzi”, commenta Sindona, pur esibendo un filo di distacco. Il distacco cade quando si tratta dei propri fini e dei propri mezzi. Nell’estate più calda della crisi sindoniana, il 2 agosto del 1979, il bancarottiere scompare da New York. Si fa vivo un fumettistico “Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore”. Comunica di avere rapito Sindona. In realtà il bancarottiere compie, fino al 16 ottobre, un rocambolesco giro da New York all’Europa, con tappa ad Atene e approdo in Sicilia. A gestire questo strano viaggio è una composita fauna di personaggi: alcuni appartengono al mondo della massoneria, altri al mondo della mafia, altri ancora a entrambi. Sindona è nelle mani di Joseph Miceli Crimi, esperto di riti esoterici e chirurgie plastiche, di John Gambino, boss di Cosa nostra americana, e di Vincenzo e Rosario Spatola, boss di Cosa nostra siciliana.

Sul “rapimento” di Sindona indagano due magistrati milanesi, Giuliano Turone e Gherardo Colombo, due segugi che contemporaneamente svolgono l’inchiesta sull’assassinio di Giorgio Ambrosoli. Scopriranno che, dietro le quinte del finto sequestro, si muove la strana compagnia massonico-mafiosa e che, dietro il killer arrivato dall’America, c’è Sindona come mandante. Ma, a sorpresa, indagando sugli amici e sostenitori del bancarottiere, faranno una scoperta inaspettata: durante una perquisizione nell’azienda di Licio Gelli, la Giole di Castiglion Fibocchi, il 17 marzo 1981 trovano gli elenchi degli iscritti alla loggia P2. Così appare finalmente chiaro il livello dei rapporti e delle connessioni che sostengono Sindona e il grado d’inquinamento delle istituzioni. Un terremoto istituzionale, una ferita ancora non del tutto rimarginata.

Molti anni dopo l’ultimo, misterioso viaggio in Sicilia di Sindona, un uomo di Cosa nostra, Marino Mannoia, racconterà che il bancarottiere aveva trascorso una parte del suo “rapimento” siciliano in una villa messa a disposizione dagli Spatola. E riferirà le confidenze che aveva ricevuto dal capo dei capi, Stefano Bontate: «Come Gelli faceva investimenti per conto di Calò, Riina, Madonia e altri dello schieramento corleonese, Sindona faceva investimenti finanziari per conto di Bontate e Inzerillo». Un altro “uomo d’onore”, Gaspare Mutolo, aggiungerà: «A Sindona erano state affidate ingenti somme di denaro da parte dei principali esponenti di Cosa nostra». Ed elenca: Pippo Calò, Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Totò Riina. Dunque Sindona era diventato consulente prezioso anche della mafia palermitana di Bontate e dei suoi alleati negli Stati Uniti, che insieme avevano fatto fare a Cosa nostra il grande salto imprenditoriale ed erano diventati monopolisti del traffico dell’eroina raffinata in Sicilia e venduta in America, nel più grande mercato del mondo.

Eppure, alla domanda diretta di Nick Tosches su quali fossero le banche usate dalla mafia, Sindona si assolve, tirando invece un colpo mancino a un giovane compagno di loggia. Risponde: «In Sicilia, il Banco di Sicilia, a volte. A Milano, la piccola Banca Rasini in piazza Mercanti». Sindona non può sapere ciò che succederà nei decenni seguenti: il figlio del direttore generale della Rasini, come lui iscritto alla P2, dopo aver fatto i suoi primi affari con i soldi della Rasini, farà una grande carriera imprenditoriale e poi politica. Ma questa è un’altra storia.

Sindona è un caso perfetto dell’uomo di potere italiano, nutrito dell’ideologia, opportunamente semplificata, del Principe. Machiavelli assume come suo modello il duca Cesare Borgia, che aveva fatto dell’omicidio, della strage e dell’inganno la via per raggiungere il potere. In altre culture tutto ciò appare insostenibile, tanto che – come ricorda Roberto Scarpinato nel suo Il ritorno del Principe (scritto con Saverio Lodato) – Adam Smith “rimase agghiacciato dall’ammirazione tributata da Machiavelli a Borgia per il massacro dei suoi rivali a tradimento”. In culture diverse da quella italiana, “vincere slealmente e contro le regole è considerato oggi, a differenza che in Italia, disonorevole, e quindi meritevole di disprezzo sociale. Anche in quei Paesi sono esistiti ed esistono personaggi come i Borgia. Il punto è che costoro sono stati superati dall’evoluzione storica e civile, sicché oggi non godono di alcun consenso e sono costretti a operare nell’ombra".

“La differenza dell’Italia rispetto agli Stati Uniti e altri Paesi europei, quali l’Inghilterra, la Francia, la Germania, sembra essere l’irredimibilità di significative componenti delle sue classi dirigenti, incapaci – a differenza delle classi dirigenti di quei paesi – di transitare da una fase di accumulazione violenta e predatoria a una fase nella quale il potere sociale ed economico acquisito in passato si stabilizza e si legalizza dando vita a un ordine che rispecchia valori sociali consolidati”.
Sono passati alcuni decenni dall’avventura tragica raccontata in questo libro. Ma l’Italia, strage dopo strage, omicidio dopo omicidio, crac dopo crac, sembra essere restata il Paese dell’eterno machiavellismo, il Paese di Sindona.

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